mercoledì 8 aprile 2009
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C’è qualcosa, nelle cronache di dolore dall’Abruzzo, che si insi­nua come fra le righe. Qualcosa come una nota diversa in tanta morte, in tan­ta devastazione. Improvvisamente, qui e là, fra le parole gettate concitata­mente nei microfoni dagli scampati, una nota che stona nella desolazione. È quando una madre racconta di co­me è stata salvata la sua bambina, da dei vicini sconosciuti che si sono ar­rampicati sui cornicioni per arrivare a quella stanza. La bambina è salva, dor­me. La madre non si capacita: «Hanno dei figli anche loro, e hanno rischiato la vita per la mia. Angeli, sono, come devo chiamarli?». C’è qualcosa, in questa mole ferrigna di strazio che sommerge dai telegior­nali, che ci stupisce. È la vecchia di 98 anni che sotto le rovine della sua ca­sa ha aspettato i soccorsi quietamen­te, lavorando all’uncinetto, in quel rit­mo antico delle dita che tramano e le­gano: simile allo svolgersi fra le dita di una corona di rosario. O il giocatore dell’Aquila Rugby, ventenne, un co­losso, che in quell’alba di macerie s’è caricato in spalla una donna e poi suo marito - salvi, dalla loro casa crollata. E su quelle grandi spalle si è poi la­sciato mettere da tanti altri, come un giogo accettato, malati in sedia a ro­telle, e materassi, e fornelli – poveri resti per sopravvivere. Con quelle spalle da rugbista, con quelle mani come badili, instancabile – a scavare, per gente mai vista. È questo che ci stupisce dall’Aquila, molto più che le polemiche, e le accu­se, e la consueta rabbia. Ci stupisce che in una simile esplosione di dolore e di male, gli uomini reagiscano. Come un pugile che ha incassato un formidabi­le colpo e, alle corde, si riscuote e tor­na a combattere. Che si raccolga così la sfida del dolore, introduce un fiato di meraviglia nell’abitudine stanca con cui spesso guardiamo a noi e agli altri. Cos’è che spinge degli uomini a ri­schiare la vita per uno sconosciuto, a svangare nel fango la notte intera, sen­za sentirsi stanchi? (Quegli stessi uo­mini che fino al giorno prima erano as­solutamente come gli altri, magari ci­nici, o arrabbiati, o pigri tentatori del­la buona sorte al lotto). È, sembra, lo stesso dolore che sfida. E riapre di­menticati pozzi interiori, e nello schiaffo provoca: c’è una sorgente, lì sotto, che avevamo dimenticato di a­vere. Generosa, gratuita; come stra­niera, in un mondo che normalmente non dà niente per niente. Si chiama questa sorgente, parlando cristiano, speranza. Quella speranza che Charles Peguy definì «una irridu­cibile» . Quel non arrendersi, anche quando tutto sembra perduto. L’im­provviso scoprire che il vicino di cui non sai il nome, vale tanto per te da sfidare la massa minacciosa dei muri spezzati e incombenti, per salvare la sua bambina. Come se quel vicino fos­se un fratello. Come se davvero, alla ra­dice, fossimo tutti fratelli. È un’altra Italia quella che s’è vista in tv e sui giornali in questi due giorni. Nella gente d’Abruzzo e nelle colonne di mezzi di soccorso che già all’alba di lunedì si mettevano in marcia da ogni parte d’Italia verso L’Aquila. Nei vo­lontari e nelle offerte di case, di viveri, di pannolini. Nelle cento sottoscrizio­ni aperte, e indicate da tutte, tutte le tv e i giornali. In questo tempo di crisi. Dove fino a ieri l’Italia, cupa e depres­sa, sembrava chiusa nelle sue paure e partigiane rivendicazioni. La sfida del dolore, come un manro­vescio, ha rivelato un Paese spesso i­gnoto agli italiani stessi. Una faccia ge­nerosa, che rischia, che non calcola. Un’Italia amante della vita. In questa settimana di Passione e di morte, ci ha stupito, ci ha lasciato muti la madre che raccontava di quegli 'angeli' che le han salvato la figlia; e il gigante del­l’Aquila Rugby, accanito, ansante, quel­la notte, su tutta un’altra meta.
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