mercoledì 18 gennaio 2012
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Potrebbe sembrare, o essere presa, come una delle tante ricorrenze annuali, cui si fa a tal punto l’abitudine da lasciarle scorrere senza, quasi, accorgersene. Anche per quel tema – «Tutti saremo trasformati dalla vittoria di Gesù Cristo, nostro Signore» – così lontano dagli slogan a presa rapida, fatti apposta per cementarsi nel nostro cervello, che ci vengono riversati a getto continuo. Ma la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che da oggi ritorna, come ogni gennaio, è quanto di più lontano si possa immaginare da ogni ritualità celebrativa, religiosa o laica che sia. Lo dice, senza equivoci, la sua storia. Passata dai timidi, sospettosi inizi nel primo decennio del secolo scorso, al moltiplicarsi, e quasi accavallarsi, di iniziative che anche quest’anno scandiranno la Settimana, fino al culmine della tradizionale chiusura, col Papa, nella Basilica di San Paolo, nei vespri della solennità della conversione dell’Apostolo delle genti.Lo rammentava lo stesso Benedetto XVI, un anno fa. Quando, proprio nella stessa occasione, ricordava con riconoscenza l’enorme debito che tutto il movimento ecumenico deve a quei "pazzi di Dio" che, precedendo di decenni il Vaticano II, affidarono alla preghiera la speranza di ritrovare l’unità perduta. Perché, come avrebbe poi affermato lo stesso Concilio, il «santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unità di una sola e unica Chiesa di Cristo, supera le forze e le doti umane» e, perciò, la nostra speranza va riposta per prima cosa «nell’orazione di Cristo per la Chiesa, nell’amore del Padre per noi e nella potenza dello Spirito Santo».Dall’Unitatis redintegratio a oggi, l’ecumenismo ha compiuto passi da gigante, anche se ai nostri occhi – ai nostri occhi italiani, credenti in un Paese che poco ha vissuto il trauma fisico della divisione – la cosa non sempre appare così evidente. Il dialogo teologico ha trovato convergenze impensabili anche solo mezzo secolo fa; e l’"ecumenismo delle opere", quello che si coagula giorno per giorno attorno a gesti concreti, specie là dove le diverse denominazioni cristiane vivono gomito a gomito, è qualcosa che ormai sfugge perfino alle più volenterose contabilità. Così come, allo stesso modo, è dolorosamente cresciuto quello che potremmo, in qualche amaro modo, definire l’"ecumenismo della persecuzione", ossia la compartecipazione alla tragedia di un mondo che continua a mettere i cristiani nel mirino dell’odio, senza distinzioni confessionali.Tutto questo è molto, moltissimo. Ma non ancora abbastanza. Perché, come ricordava Benedetto XVI, «la ricerca del ristabilimento dell’unità tra i cristiani divisi non può ridursi a un riconoscimento delle reciproche differenze e al conseguimento di una pacifica convivenza», ma «ciò a cui aneliamo è quell’unità per cui Cristo stesso ha pregato e che per sua natura si manifesta nella comunione della fede, dei sacramenti, del ministero». Un dovere, un «imperativo morale» fondamentale, di cui non per caso Papa Ratzinger, «con piena consapevolezza», si è fatto carico fin dal primo messaggio che, il 20 aprile del 2005, rivolse nella Cappella Sistina al termine della concelebrazione eucaristica con i cardinali che l’avevano appena eletto al soglio di Pietro. Ma un dovere che, per potersi compiere, ha appunto bisogno del sostegno fondamentale della preghiera. Perché «supera le forze e le doti umane». E perché, come sottolinea la presentazione di questa Settimana 2012, «la preghiera per l’unità non è un accessorio opzionale della vita cristiana, ma, al contrario, ne è il cuore».
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