lunedì 15 marzo 2021
Il militari tedeschi si erano rifugiati in un tunnel. Le bombe ne distrussero l'ingresso e l'uscita, intrappolandoli. Nessuno andò a salvarli, fecero una fine orribile e lì sono rimasti
Un'imagine di archivio della Grande guerra. Una foto relativa alla Grande Guerra dell''Archivio della memoria'', un'iniziativa realizzata dal Centro Studi Storico Militari sulla Grande Guerra "Piero Pieri"

Un'imagine di archivio della Grande guerra. Una foto relativa alla Grande Guerra dell''Archivio della memoria'', un'iniziativa realizzata dal Centro Studi Storico Militari sulla Grande Guerra "Piero Pieri" - Ansa

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I resti di 270 soldati tedeschi della Grande Guerra giacciono ancora, da oltre cent’anni ormai, in una trincea sotterranea nella regione di Reims, lungo quel fronte aspramente e sanguinosamente conteso tra Francia e Germania che veniva chiamato Chemin des Dames. 270 soldati, molti dei quali giovanissimi, dimenticati dalla Storia e dalla loro stessa patria: fino a pochi mesi fa nemmeno dove si sapeva esattamente dove fosse, lo Winterberg tunnel, rifugio invernale per le truppe tedesche dislocate attorno alla cittadina di Craons.

Il 4 maggio 1917 l’artiglieria francese colpì ingresso e uscita della galleria, condannando i nemici che vi si erano rifugiati per sfuggire al fuoco a una morte da topi. Un’atroce agonia durata ben sei giorni, sotto al tiro incrociato degli eserciti, per cui nemmeno i tedeschi cercarono di disseppellire i loro compagni, ancora vivi grazie all’ossigeno rimasto nel tunnel.

Solo al sesto giorno i soldati francesi, conquistata la zona, scavarono e liberarono gli unici tre sopravvissuti. Per il resto, era evidente, là sotto tutti erano morti, e l’urgenza del fronte non permetteva di perdere tempo con i caduti. Nemici, per di più.

Finì la guerra, l’”inutile strage”, come gridò papa Benedetto XV, finì anche lo spaventevole massacro sulla linea di confine franco tedesca, ma la galleria era ormai in terra francese, e quei 270 non interessavano granché. Con gli anni l’esatta posizione del tunnel, nascosto dentro a un bosco, venne dimenticata. Restò, l’orribile storia, nella memoria dei vecchi della zona, che qualcosa sapevano, e ricordavano in termini, però, col tempo sempre più confusi, quasi fosse solo una leggenda.

Ma un uomo del posto, Alain Malinowski, non riuscì a togliersi quella tragedia dalla mente. Dedicò la sua vita a rintracciare, nell’archivio di Stato di Chateau des Vincennes, le antiche mappe militari della zona. Finalmente nel 2009 rintracciò l’esatta posizione dell’apertura del tunnel, scavò, nemmeno molto, e trovò: ossa, baionette, elmi. Riferì alle autorità: lo presero, forse, per matto. Non accadde niente.

Suo figlio Pierre tuttavia, oggi 34 enne, proseguì nella battaglia del padre. Una notte del gennaio 2020 con una ruspa e dei compagni tornò al tunnel. Scavarono, trovarono, pietosamente ricoprirono. Bussarono al Ministero della Difesa: niente. Per svegliare le autorità ci sono volute, infine, due pagine su Le Monde. Ora la tomba di quei 270 non può più essere ignorata, né a Berlino né a Parigi.

Questa la storia. Pare incredibile che 104 anni dopo le vittime di un simile massacro siano ancora lì, dove una crudelissima morte le ha colte. Come se davvero, negli oscuri e avidi equilibri di un conflitto mondiale, gli uomini fossero meno che niente. Nemmeno una targhetta con il nome, da spedire alla famiglia, nemmeno una riga su una lapide comune. Quasi non fossero mai nati.

Smemoratezza, calcolo, opaca ragion di Stato hanno tenuto chiusa per un secolo la porta del sepolcro fra le colline di Reims. Non fosse stato per l’ostinazione di un padre e di un figlio, non ne sapremmo niente. Cerchiamo però almeno noi di immaginarcela, la fine di quei 270. 4 maggio 1917, il fuoco nemico martellava. Si erano rifugiati nel tunnel scavato come riparo al freddo invernale, tre metri sottoterra, trecento metri di lunghezza. Da lì sotto sentivano le esplosioni, ne tremava il terreno, ma si credevano al sicuro.

Con un’inaudita, diabolica precisione l’artiglieria francese centrò esattamente entrata e uscita del tunnel. Poi i cannoni tacquero, e tornò il silenzio. Ripresero a cantare gli uccelli, come ad ogni primavera.
Forse, intrappolati in quel buco, non capirono subito? Forse presero i badili e scavarono, scavarono disperatamente, ma la terra franava e ricadeva negli occhi. Gli ufficiali avranno tentato di escogitare una via di uscita, febbrilmente, comprendendo poi che solo dall’esterno poteva venire la salvezza.

Ma nessuno andò a cercare quegli uomini. Non i soldati francesi, né i contadini: erano dei nemici. Nella galleria era rimasto ossigeno a sufficienza per lasciare morire lentamente quei disgraziati. Di tutte le morti, la peggiore. Cosa fecero, in quelle interminabili ore? Ci sarà stato chi pregava, chi bestemmiava, chi impazziva, chi invocava la mamma come un bambino. Chi scriveva un biglietto alla fidanzata, prima che l’ultima candela si spegnesse.

Uno dei tre sopravvissuti testimoniò che alcuni, non sentendo per giorni alcun rumore di scavo, certi ormai nessuno sarebbe andato a salvarli, si suicidarono. Altri supplicarono un compagno di sparare.

Erano padri di famiglia, i bambini a casa ad aspettarli, o erano ragazzi di vent’anni. Pensate ai vostri figli di quell’età: ecco, avevano, sotto all’elmo dell’esercito austroungarico, le stesse facce. Gli stessi occhi, ancora non così diversi da quando erano ragazzini. E quella morte lenta, spietata, che li strinse come una tenaglia. Poveri ragazzi - poveri, mi viene da dire quasi, bambini. Buttati come carne da macello a combattere, senza capirne la ragione. Le ultime righe a casa sono annerite con voi sottoterra, di voi nessuno si è più ricordato. Tranne, certamente, le madri, i padri, le mogli. Dispersi, è stato detto loro: dove, come, cosa conta? Che importa quanti figli avevano, o se speravano di sposarsi?

Dovrebbero portarci le scolaresche, al Winterberg di Craons, per spiegare che cos’è la guerra, e di cosa rende capaci gli uomini. Per ora invece ci vanno gli sciacalli, a scavare di notte, per rubare pezzi di baionette, fucili, elmi. Mentre l’erba di una nuova primavera spunta sulla grande ignota tomba, fedele, da 104 anni. E almeno porta a quei morti qualche fiore selvatico, seminato soltanto dal vento.

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