sabato 28 settembre 2013
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La bozza di risoluzione concordata tra Stati Uniti e Russia sulla distruzione degli arsenali chimici in possesso del regime di Bashar al-Assad votata nelle ultime ore a New York dai ministri degli Esteri dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu mostra a stento un unico pregio: quello di scongiurare momentaneamente l’uso della forza. Un’eventualità peraltro già vistosamente azzoppata dalla fretta maldestra con cui la flotta americana radunatasi in solitario in prossimità delle coste siriane aveva suscitato la mobilitazione per la pace e la diplomazia guidata dal Papa e l’ostile attenzione della Russia e la sua contestuale minaccia di veto (insieme alla Cina) in caso di un voto al Palazzo di Vetro. Né si allude nella bozza a una qualsivoglia responsabilità nell’attacco con i gas del 21 agosto scorso ad Al-Goutha: una strage senza firma, la cui paternità forse non verrà mai accertata. Saranno dunque gli inviati dell’Opac (l’organizzazione con sede in Olanda per la proibizione delle armi chimiche) a dover localizzare e trovare il modo di distruggere il vasto arsenale del rais di Damasco, il quale ha già avuto modo di rallegrarsene. «La Siria – ha detto Assad – ha armi più sofisticate rispetto a quelle chimiche, che sono un’eredità degli anni Ottanta. Il loro smaltimento sarebbe costato un sacco di soldi e di tempo, anche con rischi ambientali. Lasciateli venire e che le prendano». Un compromesso al ribasso, come si vede, inevitabile e figlio dell’accordo raggiunto in extremis a Ginevra tra il segretario di Stato Kerry e il collega russo Lavrov, che tuttavia non adombra il vero grande problema che ha sfigurato i lineamenti originari della rivolta siriana: quello del nuovo fronte che si è aperto negli ultimi mesi, trasformando l’insurrezione di due anni fa in una guerra fra tre fazioni. Da una parte, l’esercito regolare siriano che si avvale dell’apporto degli hezbollah libanesi, dei volontari iracheni e di quelli iraniani (in pratica i pasdaran di khomeiniana memoria); dall’altra, i laici e gli islamici moderati (oltre trentamila, secondo attendibili ricostruzioni); dall’altra ancora il sodalizio fra le 11 sigle salafite radunate nel Fronte islamico siriano sotto la guida di Abu-Abdallah al-Hamawi (almeno 18mila effettivi armati), che a sua volta si è saldato con lo Jabhat al-Nusra (il Fronte di soccorso) e l’Isis (lo Stato islamico in Iraq e Siria), questi ultimi di spiccata intonazione qaedista (circa 12mila aderenti e una preoccupante percentuale di jihadisti provenienti dall’estero e non soltanto dai Paesi arabi, ma anche dall’Europa, Italia compresa). Queste sigle jihadiste – che assieme ai salafiti arrivano ad almeno due terzi dei ribelli – non sono sorte dal nulla: come i laici del Libero esercito siriano hanno beneficiato delle generose donazioni di armi e finanziamenti da parte dell’Arabia Saudita, del Qatar e degli emiri del Golfo, principali sostenitori della rivolta contro l’alawita Assad, ma dotati anche di una viscosa ambiguità che impedisce di comprendere fino in fondo quanto davvero temano i jihadisti e quanto invece ne cavalchino l’onda. Del resto l’obbiettivo di questo terzo fronte, ormai formalmente in guerra contro l’esercito libero e deciso a creare presidi e basi jihadiste nelle zone "liberate" dove la barbarie e la brutalità non sono seconde a quelle dell’avversario, è tutt’altro che oscuro: rovesciare Bashar al-Assad e istituire un califfato islamico in Siria che abbia nella sharia il proprio modello di riferimento. Ed è proprio questo per l’America come per la Russia, per l’Europa, per gli stessi Paesi arabi e per chi si siederà prima o poi attorno a un tavolo a Ginevra il vero grande dilemma, non la questione – pur tragica, come intollerabile è il prezzo pagato finora in vite umane, centomila almeno e in vite sradicate, due milioni ad esser prudenti – delle armi chimiche. Che l’unica l’alternativa al regime di Assad (il cui scaltro laicismo garantiva comunque un certo rispetto delle minoranze religiose) sia cioè un caos di tipo libico, una no man’s land di tipo somalo sotto i cui cieli si consumi spietato l’autunno più oscuro di tutte le sharie.
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