venerdì 24 agosto 2012
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«Siate egoisti, fate del bene». La nuova pubblicità dell’Opera San Francesco coglie nel segno con un’intuizione che oggi è sempre più suffragata da una mole crescente di evidenze scientifiche. Siamo purtroppo vittime di una visione dell’uomo piuttosto misera che deriva dall’assolutizzazione dell’autointeresse "miope". Nella stragrande maggioranza dei modelli economici l’uomo, direbbe il nobel Amartya Sen, è concepito come un «folle razionale» perché assieme all’autointeresse, forza di gravità della persona, non vengono considerate altre due componenti fondamentali come quelle della passione per l’altro e del dovere morale. Un padre del liberismo come Friedrich Hayek riconosce che l’homo oeconomicus (inteso come colui che persegue il massimo profitto per sé) è «la vergogna di famiglia» degli economisti e un noto economista contemporaneo, Robert Frank, ironizza chiedendo, in uno dei più diffusi manuali adottati dagli studenti di primo anno: «Fareste uscire vostra figlia con un homo oeconomicus?». Ricordo un collega psicologo affermare acutamente di essere rimasto stupito dal fatto che gli economisti avessero assunto a modello una caricatura di uomo le cui caratteristiche lo rendono borderline, un soggetto da mandare in analisi. Una quantità sempre maggiore di evidenze, sperimentali e non, sconfessa clamorosamente questa visione angusta suggerendo tre verità fondamentali: l’homo oeconomicus è assoluta minoranza, è triste ed è socialmente dannoso. È minoranza come dimostra uno studioso tedesco, Engel, che raccoglie e analizza complessivamente nel 2010 i risultati di 328 diversi esperimenti per un totale di 20.813 osservazioni in diversi Paesi del mondo. Documentando che solo un terzo dei soggetti analizzati si comporta da homo oeconomicus.È triste perché altre evidenze dimostrano quello che intuitivamente tutti sappiamo. Un atto di gratuità non tradisce mai e dà una soddisfazione interiore maggiore di qualunque altra azione. Sono gli stessi padri del pensiero economico a riconoscerlo. Adam Smith afferma nella Teoria dei sentimenti morali che «La preoccupazione per la nostra felicità dovrebbe raccomandarci la virtù del discernimento e farci capire attraverso di questo che essa dipende dalla nostra preoccupazione per quella degli altri». John Stuart Mill, nel famoso paradosso della felicità, ricorda che non possiamo diventare felici cercando direttamente la nostra stessa felicità. Lo saremo se ci dedicheremo a qualcosa di utile per l’umanità. Nel qual caso troveremo anche la nostra felicità lungo la strada.Infine, l’homo oeconomicus è socialmente dannoso perché rischia di incappare in quella paralisi della fiducia che blocca ogni tipo di relazione economica e sociale. Come illustra chiaramente un famoso apologo di David Hume, nel quale un produttore agricolo parla con il suo vicino: «Il tuo grano è maturo, oggi, il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi se oggi io lavorassi per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo nessun particolare sentimento di benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per te perché non ho alcuna garanzia che domani tu mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma il maltempo sopravviene e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di una garanzia.» (Trattato sulla natura umana, libro III, 1740).È infatti ampiamente dimostrato che la massima parte delle relazioni umane si svolge in un contesto di informazione imperfetta, di assenza di tutele contrattuali in grado di coprire ogni rischio di abuso e di limiti della giustizia civile. In tali ambiti, che gli scienziati sociali chiamano "giochi della fiducia" o, con caratteristiche leggermente diverse, "dilemmi del prigioniero", il comportamento dell’homo oeconomicus è quello che produce il peggior risultato sia per la società sia per il soggetto stesso che lo pone in atto. Abbiamo continuamente esempi di queste paralisi della fiducia, non solo tra individui, ma anche tra istituzioni, come nei rapporti tra i Paesi dell’area euro e tra le banche. Un’altra recente e importante frontiera dove la coincidenza tra autointeresse "lungimirante" e benevolenza è sempre più chiara è quella della responsabilità sociale e ambientale e delle risposte alla crisi. Votare con le proprie scelte di consumo e risparmio per un’azienda ambientalmente sostenibile vuol dire ridurre anche per sé i rischi di inquinamento e di dissesto ambientale. Votare per un’azienda che è leader nella capacità di conciliare creazione di valore economico con la tutela del lavoro, o comprare un prodotto equosolidale vuol dire avere a cuore il nostro futuro di lavoratori, che sarà migliore se l’aumento di benessere nei Paesi emergenti ridurrà progressivamente le differenze di vita e la concorrenza a basso costo del lavoro da quei Paesi. Infine, nella crisi che è alimentata dalla paralisi dei consumi dei ceti medio-bassi, Joseph Stiglitz esorta i ricchi a essere egoisti e ad accettare una tassazione più progressiva pagando più tasse per consentire ai ceti medio-bassi maggiori redditi e maggiori consumi che potrebbero rilanciare l’economia. «Siate egoisti, fate del bene» vuol dire insomma due cose. La prima è che i dividendi più alti sono quelli della gratuità, la seconda è che fare il bene degli altri è il modo migliore per accrescere il bene comune e fare il proprio interesse in modo lungimirante.
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