Senza intese né fiducia
sabato 3 agosto 2019

In uno scenario internazionale già estremamente fluido, dominato dall'incertezza sulla natura delle relazioni tra le grandi potenze nucleari e dalla struttura istituzionale a dir poco traballante, l’uscita degli Stati Uniti dall’Inf (il trattato sui missili nucleari a medio raggio) aggiunge un deprecabile elemento di inquietudine. L’intera architettura degli accordi stipulati tra l’allora Unione Sovietica e gli Stati Uniti durante la Guerra fredda è praticamente stata smantellata. Resta in piedi il Trattato di non proliferazione nucleare, peraltro già violato apertamente da India e Pakistan e occultamente da Israele negli scorsi decenni, sfidato ripetutamente da Kim Yong-un e ulteriormente indebolito dal ritiro unilaterale degli Usa dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano (Jcpoa).

Si potrà anche invocare (e in taluni casi non senza ragione) l’obsolescenza di alcuni di quei lontani accordi, la loro non adeguatezza ai micidiali progressi tecnologici di questi anni e i decisivi mutamenti intervenuti nella distribuzione della potenza, considerando che siamo passati dall’assetto bipolare della Guerra fredda al lungo "momento unipolare" che l’ha seguito, alla confusa fase attuale che ancora non riusciamo a definire. Si potrà sostenere che taluni regimi possono non essere meritevoli di totale fiducia, visto che si rifiutano di assumere impegni verificabili internazionalmente (la Corea del Nord) o perché, al di là e al di fuori del perimetro degli impegni assunti, offrono pretesti o motivi per dubitare dell’azione pacifica e non destabilizzante della loro politica estera e di sicurezza (l’Iran). Si potrà infine sottolineare che la Russia sta già da diversi anni (quasi) certamente violando quello specifico Trattato e che la Cina da decenni si sta avvantaggiando proprio per non esserne stata parte contraente. Ma resta il fatto che l’incapacità e la non volontà di averne aggiornato i termini e ampliato i firmatari segna un’oggettiva sconfitta per la convinzione che – almeno per i temi più delicati e pericolosi – sia perseguibile la strada della trattativa e della reciproca rinuncia da parte di ognuno a una porzione del proprio interesse esclusivo allo scopo di conseguire un più alto interesse collettivo.

Questa era la grande speranza edificata con tenacia e passione nei decenni dell’ultimo dopoguerra: che tra nemici (altro che tra rivali) fosse comunque possibile il raggiungimento di un’intesa nel nome del bene comune. D’altra parte, se neppure di fronte al suicidio programmato dell’umanità, che forse dovremmo definire sterminio programmato e consapevole del genere umano nel nome di pochi giganteschi interessi economici, non riusciamo a concordare una strategia comune, perché dovremmo stupirci di ciò cui stiamo assistendo?
Che ne siamo o meno consapevoli, la fine di questo Trattato, firmato da Reagan e Gorbaciov quando la speranza che quel Muro venisse «tirato giù» era il sentimento dominante rispetto alla rassegnazione o all’entusiasmo odierni di fronte alla costruzione di tanti altri muri infami, ci avvicina di un passo alla pericolosa violazione del tabù nucleare, quello su cui si era fondata la sola pace possibile in un’epoca di scontro totale, come fu la Guerra fredda. Sottolineava giustamente sul "Corriere" di ieri Francesco Venturini che in questi sei mesi l’Europa – l’Unione e i suoi principali Stati membri, comprese le due potenze nucleari di Francia e Regno Unito – è risultata inerme, come se il Trattato che chiuse la stagione degli "euromissili" non la riguardasse. È giusto auspicare una presa di posizione forte della nuova presidente della Commissione europea e del premier italiano Conte: che non c’è stata.

A ricordarci, plasticamente, due cose: 1) che l’Unione è sotto attacco dei sovranisti persino nella definizione della sua agenda internazionale, per cui la questione vera della sovranità internazionale dell’Unione e dei suoi Stati membri di fronte alle superpotenze che si contendono il potere nel mondo è ostaggio della sovranità retorica impiegata sul dramma delle migrazioni come un randello squadristico di bassa lega; 2) che l’orizzonte della politica delle forze sovraniste – italiane, francesi o mitteleuropee che siano – è angusto, incurante degli interessi nazionali e dell’Unione, strumentalmente asservito a quello di chi congiura – forse persino prezzolato – per ridurre sempre più ruolo e futuro della Ue.

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