martedì 11 dicembre 2012
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Assai bistrattata di recente da un infelice a­dattamento cinemato­grafico, 'La novella del Grasso legnaiuolo' ri­mane uno dei testi più enigmatici e profondi del nostro Quattrocento. Roba per in­tenditori, si dirà. E invece no: quel rac­conto ci riguarda. Riguarda molto da vicino tutti noi, contemporanei di Mel Greig e Michael Christian, la coppia di dj australiani la cui esistenza sarebbe restata giustamente priva di notorietà internazionale se, la settimana scorsa, i due non avessero avuto l’idea di farsi passare rispettivamente per sua mae­stà Elisabetta II, regina d’Inghilterra, e per suo figlio Carlo, principe di Galles. Una telefonata all’ospedale londinese in cui la duchessa Kate è ricoverata per le prime complicazioni della gravidan­za, un’infermiera che casca nel tranel­lo, la registrazione rilanciata via radio (e via web) in tutto il mondo.
Il resto è noto, purtroppo: Jacinta Saldanha, la donna di origine indiana che aveva in­cautamente risposto alle domande della finta regina, si è tolta la vita per ragioni non difficili da intuire. La ver­gogna di aver violato il codice d’onore della privacy, si è detto, ma forse an­che il timore di perdere il posto. Di questi tempi, con tutto quello che suc­cede. Di questi tempi, appunto. Che sono poi i tempi di Mel e Michael, due bei ragazzi degli antipodi, vagamente i­pervitaminici, che come tanti loro coetanei dell’Occidente industrializza­to sono cresciuti nella convinzione che, in fondo, non c’è nulla di serio, su tutto si può scherzare, l’ironia è l’uni­ca virtù pubblicamente riconosciuta e per il resto non c’è da fare troppi drammi.
I due australiani, del resto, non hanno davvero inventato nulla: anche dalle nostre parti il millantato credito mediatico è pratica tristemen­te diffusa, che accomuna imitatori i­strionici (per gli amanti del genere, il presidente Pertini contraffatto da Pao­lo Guzzanti costituisce ancora una pietra miliare) e non esclude i sedi­centi giornalisti che, non contenti di trascrivere interviste mai realizzate, si sostituiscono direttamente agli autori per prendersi gioco di colleghi più o­nesti e coscienziosi di loro.
Niente di nuovo, si sarebbe tentati di dire, se so­lo questa volta una donna non fosse morta, schiacciata da una serie di sen­timenti che l’emotivamente corretto degli anni Duemila non riesce più a mettere in conto: la vergogna, l’onta, l’umiliazione. È qui che la storia del 'Grasso' diventa lo specchio della nostra cattiva co­scienza. Di che cosa parla questo pic­colo capolavoro di perfidia e di intro­spezione? Di una combriccola di intel­lettuali (a capitanarli è addirittura Fi­lippo Brunelleschi) che, per divertirsi alle spalle di un amico, gli fanno cre­dere che lui, il malcapitato, non è più lui, ma un altro. Non un artigiano co­nosciuto e apprezzato, ma un poco raccomandabile perdigiorno. Non l’uomo che è, ma quello che nel segre­to teme di poter essere.
La beffa coglie nel segno e, anche dopo che il trucco è stato rivelato, la vittima non sopporta più di vivere a Firenze e si trasferisce lontano, il più lontano possibile, nel tentativo di ritrovare il se stesso che a­veva smarrito. Ecco che cosa accade, quando si gioca con l’identità: si crede di mettere in ridicolo gli altri e invece si rinuncia alla propria dignità di per­sone. I notiziari ora riferiscono del pentimento di Mel e Michael, delle la­crime di lei, della disperata difesa di lui. Troppo tardi, d’accordo. Ma forse anche questo può essere un inizio.
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