sabato 22 maggio 2010
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Caro direttore,mese di maggio: una strage. Forse la prima di una lunga sequenza. Persone in fila per il pane sono bersaglio di un colpo di mortaio. Ma in Italia c’è il campionato di calcio che occupa l’informazione e forse anche l’impegno dei politici. Il Milan vince il campionato! No non è un errore. E la strage non è in Afghanistan, neanche in Iraq. Siamo a Sarajevo: 27 maggio 1992. Avviene la prima grande strage: colpisce la gente in coda per il pane a Vasa Miskin. La capitale bosniaca è sotto assedio dal 6 aprile. Ma l’indifferenza del mondo non viene molto scalfita. Dai giornali e dai servizi Tv di allora, sembra essere più importante l’infortunio di qualche grande calciatore del Milan e lo scudetto che, appunto i rossoneri, vincono in quell’anno. Si cerca in tutti i modi di attirare l’attenzione su Sarajevo. Qualcuno propone anche la sospensione del campionato di calcio... Ma non succede nulla. A dicembre ci sarà poi la marcia di pace dei 500 con i Beati costruttori di pace e don Tonino Bello.Mese di maggio. Questa volta siamo nel 2010. Lo scudetto lo vince l’Inter. E il campionato occupa lo spazio sui mass-media (molto più della Perugia-Assisi... ovviamente) e a quanto pare anche il tempo e l’interesse del ministro della Difesa. Il 17 maggio vengono uccisi due soldati italiani in Afghanistan. Allora si torna a parlare della missione militare (che si chiama guerra) che dura da tanto tempo, e di tutte le varie cose che si dicono in queste circostanze. Forse la morte dei due soldati, al di là della retorica di rito, non importa poi più di tanto. Il rispetto della vita passa per altre strade, più silenziose e più umane. Lo dico con dolore pensando a chi è stato ucciso. Il sottoscritto, con don Fabio di Pax Christi, è stato tra i pochissimi italiani presenti a Baghdad, ai funerali delle "nostre" vittime di Nasiriyah, il 18 novembre 2003. Occasione di grande retorica e di dimenticanza dei morti iracheni. Ma, tornando al campionato, ho la sensazione che la situazione sia simile a quella del 1992: guerre dimenticate e spazio al campionato. Con stupefacenti "duelli" di parole tra ministri interisti e sindaci romanisti. E sono io, con chissà quanti altri, a restare senza parole. Forse, possono essere di aiuto anche ai mass-media e ai politici, le parole del vescovo ausiliare di Sarajevo, monsignor Sudar: «La guerra nella mia Patria e le sue tragiche conseguenze mi hanno costretto a immaginare il corso della storia senza le guerre... Dopo aver visto e vissuto da vicino che cosa vuol dire la guerra di oggi... sono profondamente convinto, e lo potrei provare, che l’uso della violenza ha portato sempre un peggioramento».

don Renato Sacco

Condivido lo spirito della sua lettera, gentile don Renato: soprattutto la vibrante aspirazione a una pace che non si riduca mai a verbosità retorica, ma abbia consistenza di impegno perseguito con tenace speranza. È flagrante la sproporzione informativa – e lei la sottolinea bene – tra le tragedie balcaniche e asiatiche e il diluvio mediatico in tema calcistico. Mi permetta però di distanziarmi dal suo giudizio sulla natura e sul senso degli impegni internazionali delle nostre forze armate. Mi sembrano esemplari, a riguardo, le parole pronunciate dall’ordinario militare, l’arcivescovo Vincenzo Pelvi, nell’omelia per i funerali di Massimiliano Ramadù e Luigi Pascazio, gli alpini morti il 17 maggio in Afghanistan: «Per i nostri giovani militari le missioni di pace sono una questione d’amore per dare dignità e democrazia a chi piange e soffre nelle terre più dimenticate. Amore e pace sono inseparabili. La pace è un effetto dell’amore, deve essere fondata sul senso dell’intangibile dignità umana, sul riconoscimento d’una incancellabile e felice eguaglianza fra gli uomini, sul dogma basilare della fraternità umana. La società non è capace di futuro se si dissolve il principio di fraternità. Ricordiamo che il servizio reso dai nostri figli (...) resta un evento scritto per sempre nella storia della pace, un patrimonio che deve irrobustire la coscienza nazionale unitaria degli italiani. Noi siamo un’unica grande famiglia, partecipi dello stesso bene fondamentale: la pace. Questo comporta il coraggio di passare dall’indifferenza all’interessamento per l’altro, dal rifiuto alla sua accoglienza: gli altri non sono concorrenti da cui difenderci, ma fratelli e sorelle con cui essere solidali; sono da amare per se stessi; ci arricchiscono con la loro presenza. Il sacrificio dei nostri militari non è vano, non solo per l’Afghanistan, ma anche per l’Italia e il mondo intero. Le condizioni di insicurezza di altre nazioni, se non contenute e sradicate, possono ostacolare il progresso della famiglia umana». Sono e resto convinto che questa ispirazione e queste aspirazioni, che sento anche mie, non siano in contrasto con quanto lei auspica. Un saluto cordiale.
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