giovedì 7 luglio 2016
​L'impasse sugli accordi transatlantici sul commercio segna la fine di un altro capitolo della politica dell'Unione Europea. (Leonardo Becchetti)
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Due notizie delle ultime ore, apparentemente per addetti ai lavori, segnano probabilmente la fine di un altro capitolo della politica dell’Unione Europea, quello incentrato su un certo modello di accordi commerciali con grandi partner transatlantici. La prima notizia è che il Ceta, il trattato transatlantico sul commercio concluso con il Canada, è stato giudicato dalla Commissione un «trattato misto», ovvero materia che richiede per l’approvazione della Ue il pronunciamento a favore del Parlamento di ciascuno degli Stati membri (sapendo già che ne esistono alcuni a maggioranza contrari, e ciò mette in seria discussione il trattato). La seconda notizia è l’ammissione, per bocca del viceministro francese Frekl, che è praticamente impossibile che il negoziato sul Ttip (il trattato transatlantico sul commercio in discussione con gli Stati Uniti, avversato da molte forze sociali) arrivi in porto nei tempi stabiliti. Questa "sconfitta" è maturata anche per la distanza su alcuni capitoli cruciali tra sensibilità e regole della Ue e approccio americano. E non è necessariamente una cattiva notizia, anzi. Segna, infatti, un ripensamento delle stesse classi dirigenti Ue che finalmente, dopo la Brexit, sembrano essersi accorte della scollatura con tanta parte dell’opinione pubblica degli Stati membri.I fatti sono evidenti. La globalizzazione ha profondamente squilibrato i rapporti tra grandi gruppi industriali e finanziari, istituzioni politiche e cittadini. Le istituzioni politiche invece di "mettere una zeppa" a un tavolino a tre gambe che traballa per via della gamba più corta, quella della cittadinanza, si sono "compiaciute" del consenso delle lobby e hanno scelto politiche e strategie che sono andate ad aumentare lo squilibrio, producendo diseguaglianze e malcontento sociale. Hanno messo tra parentesi, però, un particolare di non poco conto: le lobby non votano, o hanno pochi voti, mentre la grande maggioranza dei ceti medi e bassi dei Paesi europei al momento del voto può esprimere tutto il proprio dissenso per questo tipo di scelte politiche.La vicenda del Ttip, da questo punto di vista, è esemplare. Nei migliori degli scenari realizzati dagli studi d’impatto esso prevede una crescita del Pil europeo dello 0,5% entro il 2027. Chi fa ricerca sa quali e quante sono le assunzioni "eroiche" su cui si reggono tali studi (e il loro tendenziale eccesso di ottimismo) e, dunque, è in grado di capire perfettamente che una previsione di questo tipo è meno attendibile del responso della Sibilla Cumana. Vendere questo micro-beneficio potenziale come motivo chiave per essere favorevoli all’approvazione del trattato è un insulto all’intelligenza di chi dovrebbe convincere e di chi dovrebbe essere convinto. Non dimenticando che le stesse analisi di previsione degli effetti indicano una forte riallocazione dei flussi commerciali a favore degli Stati Uniti e cospicue perdite di lavoro in Europa nel breve periodo, solo in Italia si stimano ad esempio circa 300mila addetti del settore agricolo.A fianco di questi incerti e contraddittori "benefici" economici esistono pesanti incognite. In primo luogo, il Ttip propone che la soluzione delle controversie tra imprese e Stati venga affidata al cosiddetto Isds, ovvero a un arbitrato privato così come accade nei Paesi poveri o emergenti dove le aziende temono di non poter vedere riconosciute le più elementari regole del diritto. Pensare che si dovesse fare lo stesso con Paesi dalla grande tradizione giuridica come quelli europei è una vera e propria umiliazione. Gli arbitrati internazionali si sono contraddistinti nel recente passato per essere "luoghi" dove grandi multinazionali hanno chiesto (e spesso ottenuto) risarcimenti miliardari contro Stati che (come nel caso dell’Uruguay) si sono permessi di fare pubblicità antifumo o (come nel caso dell’Egitto) di alzare il salario minimo "pregiudicando" gli scenari di profitto atteso dalle stesse multinazionali. Ancora maggiori sono state le preoccupazioni, suscitate dal timore di un accordo al ribasso verso il modello di regole oggi in vigore negli Stati Uniti, per le possibili conseguenze del Ttip sul fronte della salute, dell’ambiente e della tutela del lavoro.Sulla salute, la prospettiva poteva essere quella di passare dal 'principio di precauzione' alla possibilità di intervenire solo in caso di conclamati danni alla salute dimostrati scientificamente (una differenza che, oggi, a svantaggio degli Usa produce effetti tangibili in termini di numeri di vittime di sofisticazioni alimentari sulle due sponde dell’oceano). Sul lavoro, si profilava lo scivolamento verso standard americani, che non tengono conto di fondamentali convenzioni Oil in materia di diritti del lavoro e non contemplano il diritto di associazione sindacale. Se dunque il Ttip faceva tendenzialmente fatica a passare l’«esame del Pil», quanto appena illustrato basta per rendersi conto di come sarebbe stato sonoramente bocciato all’«esame del Bes» (il benessere equo e sostenibile), vero indicatore della qualità e soddisfazione di vita dei cittadini. Il sospetto è che il Ttip avrebbe finito per essere l’ennesimo anello di una globalizzazione sbilanciata verso i grandi gruppi, dove piccole e medie imprese e cittadini finiscono troppo spesso dalla parte dei perdenti. È un sospetto mai fugato e che è stato persino ingigantito dalla procedura 'quasi segreta' seguita nelle trattative. Solo dopo una tenace insistenza della società civile è stato possibile per i membri dei Parlamenti nazionali accedere (e soltanto per un tempo molto limitato!) in speciali stanze dove, sotto sorveglianza, gli stessi hanno potuto leggere alcune delle 800 pagine relative ai negoziati senza poter prendere appunti o fotografare il testo. Un fatto simbolico che parla da sé di una 'democrazia sotto sequestro'. Nessuno (o quasi) degli oppositori al Ttip è anacronisticamente contrario per principio agli scambi commerciali, che sono fondamentali per il funzionamento dell’economia e per la fratellanza dei popoli. Più semplicemente, come hanno avuto modo di affermare i nobel Stiglitz e Krugman, il commercio è già abbastanza libero e il vero problema da affrontare è quello di invertire la crescita delle diseguaglianze e la corsa al ribasso sulla dignità della persona e del lavoro. E proprio in questa materia il Ttip poteva segnare un ulteriore passo indietro, con conseguenze che non sarebbero state certo favorevoli ai popoli interessanti e alla sopravvivenza in carica di chi li governa. Sembra – sembra! – che questo sia stato compreso.
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