giovedì 27 maggio 2010
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Caro direttore, sono un medico in formazione specialistica, da tempo interessato alle scienze della mente. Ci troviamo in un’epoca caratterizzata da un boom impressionante dell’uso di ansiolitici, antidepressivi e psicofarmaci in genere; aumenta il ricorso a psicologi e psicoterapeuti da parte di larghe fasce della popolazione. La corsa alla "salute mentale" non riguarda solo gli adulti; anche bambini e anziani sembrano non poter fare a meno di ricorrere a sussidi psicofarmacologici o psicoterapeutici. È come se avessimo perso la fiducia in noi stessi e avessimo bisogno di un’"aiutino" esterno (pillole) o di attribuire al passato, al rimosso, a un inconscio malevolo le nostre debolezze. Certo, ci sono casi in cui bisogna intraprendere terapie, ma alcune domande si affacciano alla coscienza: come stiamo vivendo? Cosa c’è che non funziona? Cosa vogliamo nella vita o dalla vita? Come ci poniamo di fronte alle difficoltà? Forse è riduttivo, ma penso che stiamo cercando di fuggire da una verità che ci pare troppo grande: per amare, per essere felici bisogna fare violenza a se stessi. È la logica della Buona Novella che fa tanta fatica ad entrare nella nostra vita. Stiamo invece cercando amore e profondità di vita a buon mercato, meglio se il tutto è passato dal Ssn e senza ticket. Ma purché qualcuno ci doni la felicità, siamo disposti a spendere anche fior di quattrini. Ormai la felicità non ci appartiene più. Come la vita (regolazione delle nascite) e la morte (eutanasia) cercano di essere scaricate sulla medicina e su chi la pratica, così anche la felicità, ormai aspirazione troppo grande, deve diventare di pertinenza di qualcuno che la può, a buon titolo, distribuire. Matura e cresce quindi l’illusione di poter scaricare i nostri problemi sui neuroni malfunzionanti o sull’inconscio che gioca brutti scherzi e, pur di non addossarci il nostro carico di debolezze, diamo le redini della nostra vita a molecole, specialisti e ricercatori. Finché forse, un giorno, riusciremo a ricostruire una vita artificiale in un universo d’insoddisfazione reale.

Stefano Mancini

La sua lettera-testimonianza, caro dottor Mancini, è interessante e trovo che possa stimolare una riflessione comune. Non le nascondo, tuttavia, che ho una certa ritrosia nell’accostarmi a spiegazioni semplici e univoche di dinamiche profonde e complesse come quelle che coinvolgono i meccanismi psichici, affettivi e relazionali più intimi dell’esistenza umana. Mi induce a grande prudenza soprattutto la conoscenza diretta di persone di notevole intelligenza, dalla vita integra e dalla coerenza morale adamantina – per le quali, come si suol dire, sarei disposto a mettere la mano sul fuoco –, che hanno dovuto fare ricorso a supporti psicologici e farmacologici. Qualche volta la debolezza non può davvero essere affrontata solo con la buona volontà. E nel momento della fragilità bisogna saper dare tutto l’appoggio necessario, con tutta la possibile efficacia. Sono, però, persuaso anch’io del fatto che l’aiuto "esterno" debba essere transitorio e sempre al servizio di un impegno totalmente teso a restaurare la capacità della persona di autogestire stati d’animo e scelte di vita. Per questo, oltre al contributo della medicina e all’ausilio degli specialisti, credo che sia indispensabile la "terapia" della vicinanza e del sostegno umano. Chi "sta bene" e ha – tra i propri cari o nella cerchia degli amici – persone che patiscono disagio, questo lo sa bene. Non è sempre facile, anzi a volte è davvero difficile. Ecco perché ripeterci che l’«amore è paziente» non è e non sarà mai solo un modo di dire.
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