Quell'«indirizzo» che non cambia la legge
martedì 22 settembre 2020

Sulla questione delle nuove Linee guida emanate dal ministro Speranza per la pillola abortiva Ru486 è necessario chiarire alcuni equivoci. Il primo riguarda proprio la natura dell’intervento ministeriale. La legge 194 che norma l’interruzione volontaria di gravidanza non prevede Linee guida, come invece accade con altre leggi, ad esempio la legge 40 sulla procreazione assistita. Non si tratta quindi di un adempimento legislativo, e nemmeno di Linee guida cliniche, elaborate in genere dall’Istituto superiore di sanità. Non si tratta nemmeno di un vero e proprio atto ammini-strativo, ma più genericamente di linee di indirizzo rivolte a chi effettivamente gestisce l’organizzazione sanitaria, ovvero le Regioni.

Le cosiddette Linee guida non costituiscono quindi un obbligo per nessuno, più che altro sono una proposta, avvalorata dal parere del Consiglio superiore di sanità, organo di consulenza scientifica del Ministero della Salute. Le prime Linee guida sull’aborto chimico sono state elaborate nel 2010, quando la ditta produttrice della Ru486 ottenne dall’Ema, l’ente europeo del farmaco, il consenso per la distribuzione della pillola in Italia. Il ministro era allora Maurizio Sacconi, mentre io ero sottosegretaria, e fra le mie deleghe c’erano quelle riguardanti la salute delle donne e la maternità.

Conoscevo bene le problematiche del metodo chimico perché con Assuntina Morresi avevamo pubblicato qualche anno prima un libro in cui percorrevamo la storia della Ru486 e delle sperimentazioni scientifiche, e sapevo con quanta difficoltà emergono gli eventi avversi, le complicazioni e persino le morti collegate all’assunzione del farmaco. Il problema fondamentale che avevo di fronte era in primo luogo la compatibilità dell’aborto chimico, che è tendenzialmente domiciliare, con la legge 194, che limita gli interventi esclusivamente a specifiche strutture pubbliche. A questo riguardo avevamo ben tre pareri del Consiglio superiore di sanità che ribadivano la necessità di mantenere tutta la procedura (che dura almeno tre giorni) in ambito ospedaliero, e quindi in regime di ricovero, proprio per rispettare la 194.

Ma c’era un altro problema, che non aveva nulla di formale: se l’aborto si verifica fuori dalle strutture sanitarie, di quello che accade alle donne e all’embrione non si sa più nulla. Ogni anno (e in questo caso parliamo di un obbligo di legge) il Ministero presenta al Parlamento una relazione sull’aborto con i dati forniti dalle Regioni, e si tratta di un documento molto dettagliato, che offre informazioni importanti. Ma mentre degli interventi abortivi effettuati in ospedale si sa tutto, di quelli effettuati con la Ru486 si sa poco e nulla. Gli effetti sulla salute delle donne non sono rilevati, ed è sintomatico (anche se desta un certo stupore) che nel nuovo parere del Css per avvalorare l’assenza di eventi avversi si faccia riferimento a statistiche (i dati Istat) e non a informazioni fornite dalle Asl e dalle Regioni. Il punto è proprio questo: che con l’abolizione del ricovero la farmacovigilanza è resa sostanzialmente impossibile, il follow upse le donne abortiscono a casa non si riesce a fare, e l’aborto finisce in un buco nero di silenzio. Le Linee guida sono nate dunque per tutelare la salute femminile e rispettare la legge 194, sapendo bene che non si trattava di un atto che comportasse obblighi, e infatti alcune Regioni, come l’Emilia Romagna, le hanno disattese fin da subito.

Oggi sono già partiti attacchi feroci per chi, come l’assessore Marrone in Piemonte, osa nutrire perplessità sulle nuove indicazioni del Ministero e prova ad approfondire autonomamente le questioni in gioco: oltre alla sicurezza sanitaria c’è, essenziale per un amministratore, quella del rispetto della legge. La possibilità di effettuare gli aborti nei consultori, per esempio, è in aperto contrasto con la 194, che affida ai consultori solo compiti di prevenzione, e non li nomina all’art. 8 nell’elenco delle strutture in cui si possono eseguire gli interventi di interruzione di gravidanza. Ma ai dubbi e alle domande scomode non c’è chi risponda nel merito. Piuttosto si cerca subito di alzare la cortina fumogena delle accuse ideologiche, così utili quando mancano gli argomenti specifici. Speriamo che chi ha la responsabilità di gestire la sanità queste domande invece insista a porsele, e abbia il coraggio e l’autonomia necessaria per agire in modo coerente e serio.

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