venerdì 9 settembre 2016
​I messaggi che (indirettamente) diamo ai più piccoli.
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Tra pochi giorni parte l’anno scolastico e ricomincerò ad accompagnare i miei figli a scuola. Ogni mattina ripercorrerò con loro la strada di sempre passando davanti alle stesse case, agli stessi negozi, agli stessi bar. E attraverserò la stessa via dove si incontra la solita fila di auto parcheggiate ordinatamente in divieto di sosta. Anche quest’anno, insomma, di tanto in tanto mi capiterà di dover rispondere alla fatidica domanda: «Papà, ma perché queste macchine sono qui se il cartello dice che non si può»? Finora ho sempre fornito questo tipo di risposta: «I proprietari sono persone che non sanno leggere, non sono andate a scuola, non hanno avuto buoni genitori…».  Forse qualcuno la giudicherà un po’ fuori tono, ma mi sembra adeguata a far maturare un minimo di senso civico, marcando allo stesso tempo una certa distanza. Forse più avanti mi capiterà di essere ancora meno indulgente e di chiamare in causa il dovere delle istituzioni, ma non è questo che temo. La questione è: al di là dell’educazione che si può impartire in famiglia o trasmettere a scuola, che effetto può avere su dei bambini confrontarsi tutti i giorni dell’anno con una situazione di regole non rispettate?  Sia chiaro: il riferimento non è al furgone parcheggiato sulle strisce pedonali per scaricare i gelati del bar di fronte, all’auto con le quattro frecce ferma sull’area di carico-scarico, al furgoncino in seconda fila col motore acceso per la pausa caffè… Questo tipo di violazioni appartiene a quel disordine quotidiano che caratterizza le città per una somma di piccoli comportamenti singolarmente disordinati, e se anche nel suo insieme concorrono ad abbassare la qualità della vita – perché ad esempio riproducendo il caos di una giungla impediscono ai genitori di mandare i bambini a scuola da soli, magari in bici – in realtà si presenta come un elemento di disturbo transitorio e circostanziato. È così, insomma, ma potrebbe non esserlo più con una modica quantità di attenzione. Ma alla fine ci autoassolviamo sostenendo che è il minimo prezzo da pagare alla nostra superiore creatività, ovvero all’originalità anarchica di un popolo che sa sempre cavarsela in modo sorprendente.  Diverso è il caso della violazione ordinaria, sistematica, pianificata, conosciuta e, dunque, riconosciuta. Che porta nel tempo alla rassegnata accettazione di una condizione in cui o le regole sono sbagliate, oppure non vengono rispettate. Perché mettere un cartello di divieto se si consente che avvenga, esattamente e sempre, il contrario? A casa e a scuola si trasmette il rispetto delle regole civiche, poi la comunità lascia che i ragazzi sperimentino quotidianamente la violazione come condizione immutabile e quasi necessaria. Che cittadini saranno quando dovranno pagare le tasse, gestire un appalto, costruire, amministrare, fermarsi al rosso o alle strisce, e via dicendo? Quale messaggio educativo avrà prevalso alla fine?  Di fronte a certi eventi drammatici capita quasi sempre di scoprire che nella lunga filiera delle responsabilità mancava un certificato, un documento non era in regola, una verifica non era stata fatta. Cose così, errori a volte insignificanti, altre meno. La scuola dovrebbe insegnare a essere buoni cittadini, la tragica realtà è che ogni tanto, purtroppo, in questo modo le scuole crollano. E non è un dato di natura. Dovremmo incominciare proprio a pensare che cambiare approccio alle regole, fin da piccoli, insegnando e testimoniando che vanno rispettate, è molto meglio che fare sempre il contrario. E a comportarci di conseguenza.
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