domenica 20 aprile 2025
La croce testimonia che il futuro non è già scritto, che il nostro è un Dio delle sorprese, che non tutto è perduto, e che anche noi possiamo cambiare. Gesù ha cambiato la morte
Francesco attraversa la Porta Santa nella cappella del carcere di Rebibbia

Francesco attraversa la Porta Santa nella cappella del carcere di Rebibbia - VATICAN MEDIA/Ag.Romano Siciliani

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Nelle domeniche dell’Anno Santo “Avvenire” ospita voci credenti e laiche per offrire spunti di riflessione a partire da domande ispirate dalla Bolla di indizione del Giubileo. Qual è, oggi, la speranza che “non delude”? Quali speranze nutrono il nostro sguardo sul futuro? Su quali fondamenta edifichiamo i progetti della vita, le attese, i sogni? E la società, a che speranza collettiva attinge?


Pasqua è per eccellenza il mattino della speranza. È il giorno in cui si può persino iniziare a credere che l’impossibile si è fatto realtà. O, forse, che i criteri coi quali confinavamo il possibile nel già visto erano insufficienti. Così, il cammino di conversione al Nuovo di Dio, iniziato presso il sepolcro vuoto, continua nella Chiesa sino ad oggi. Si tratta di una soglia da varcare, come una porta santa su ciò che ancora l’umanità ritiene impossibile, ma non ha smesso di desiderare. È in questo spirito che una decina di giorni prima di questa Pasqua, insieme alla grande comunità di chi lavora nel Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, ho vissuto una settimana di sosta, fatta di incontri, riflessioni, discernimento e pianificazione, ma soprattutto segnata dal pellegrinaggio giubilare. Una pausa non vuota, dunque: la sospensione delle attività esterne e un più disteso rimanere fra i collaboratori di ogni giorno ci ha portati tutti a contatto con le ragioni della nostra missione. Il nostro modo specifico di essere a servizio del Papa e della Chiesa, infatti, riguarda un dinamismo – lo chiamiamo “sviluppo” – che ha per origine l’umanità risorta del Crocifisso. È il suo dono, la sua vittoria, a impegnarci in un grande lavoro comune a servizio di Chiese in cui l’impossibile continua a diventare possibile.

Racconto questo, perché ho la sensazione che la grazia di collaborare a Roma con cristiane e cristiani da molti Paesi del mondo non sia un privilegio da tenersi stretto, ma una profezia di speranza di cui rendere parte l’intera umanità, che fatica più che mai a immaginare un futuro disarmato, senza muri di contenimento e di separazione. Mentre la terra, nostra casa comune, geme e soffre, la fraternità e l’amicizia sociale sembrano a propria volta impossibili. Per questo coi colleghi del Dicastero il Giubileo della speranza ha significato raggiungere i margini della città, anche fisicamente: abbiamo iniziato il pellegrinaggio varcando la porta santa del carcere di Rebibbia e soltanto dopo, alla fine, quella della Basilica di San Pietro. Là dove le ferite di una grande metropoli sembrano concentrarsi brilla infatti più intensa la luce di Pasqua. Il bacio del Giovedì Santo, il buio del Venerdì Santo, il silenzio del Sabato Santo sono come impressi in certi luoghi che, come il Calvario, consideriamo fuori dalle porte della città.

Rebibbia, incontro tra speranza e misericordia. Ecco l’impossibile, la meraviglia preclusa alla città indifferente. Perché una porta santa in carcere? Nella Roma delle innumerevoli chiese, una basilica così laica che posto ha per la grande Chiesa? Papa Francesco è un pastore che sta dentro, dietro, ma spesso anche davanti al gregge. Seguirlo nell’intuizione radicale di riconoscere nelle periferie esistenziali dei santuari della presenza di Dio ci orienta verso Gesù e verso l’umanesimo che il suo dono ridisegna. Non quello della perfezione estetica e morale, ma quello della reciprocità e della grazia. Nel carcere ci aspetta il Dio che non teme i nostri debiti, che si cimenta con l’ingiustizia, che scende e solo così solleva. E come parlare di speranza, altrimenti? Ero curiosa, nell’incontro con alcuni detenuti, su come loro, privati della libertà – in alcuni casi senza prospettive di poter lasciare quel luogo, quelle condizioni – intendessero la speranza. Non una generica curiosità, ma in fondo l’aspettativa di uscirne evangelizzata. È stato così. Ho visto credere che la speranza non delude. Se speriamo, cioè, non saremo delusi: se rinunciamo a mettere ipoteche sul domani, se ci apriamo alla possibilità di essere persino collaboratori di Dio nello scrivere righe nuove nel poema del nostro tempo e della nostra umanità, non saremo delusi. In carcere è più chiaro: è insieme un dono e una scelta di campo. Sperare non è dunque incrociare le braccia, ma collaborare con Dio – in genere inconsapevolmente – e fargli spazio. Senza etichettare il futuro.

Rileggevo negli stessi giorni il commento al Padre Nostro di Simone Weil (Castelvecchi, 2021), dove questa grande testimone sulla soglia della Chiesa afferma che per poter dire «Rimetti a noi i nostri debiti» dobbiamo aver già rimesso tutti i nostri debiti: «Sono tutti i diritti che pensiamo il passato ci dia sull’avvenire […] «Nostri debitori sono tutti gli esseri, tutte le cose, l’Universo intero. Tutti i crediti che riteniamo di possedere rinviano sempre a un credito immaginario del passato sull’avvenire. È a questo che occorre rinunciare». A Rebibbia ho sperimentato la profonda consonanza fra queste parole e quelle che ascoltavamo dialogando con le persone detenute. Ho capito che quando si è realmente consapevoli di avere delle colpe – e loro lo erano – è più facile non vantare crediti, non sentirsi in diritto di riconoscimenti e ricompense, e quindi si è nella disposizione giusta per chiedere: «Rimetti a noi i nostri debiti» e «liberarci dal male». E questa è una predisposizione importante per vivere la speranza. Inserisce, infatti, il nostro personale cambiamento nel desiderio di un mondo nuovo per tutti.

Ripenso allora a San Paolo (Fil 3, 13-14): «Dimentico del passato e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro» e penso a quante volte siamo fermi. Continua Simone Weil: «Accettare che l’avvenire sia ancora vergine e intatto, strettamente legato al passato da vincoli che ignoriamo, ma completamente libero da quelli che la nostra immaginazione crede di potergli imporre». Ecco il punto, il passaggio, la Pasqua: sperare è credere ogni giorno che il domani non è ancora stato scritto, lasciare a Dio la possibilità di essere creativo, cioè se stesso. Dargli una possibilità – sì, dare noi a Dio una possibilità! – anche quando non la intravvediamo, in un orizzonte che sembra già definitivamente determinato. Quando sembra che nulla cambierà, quando vediamo dolore e desolazione intorno a noi, quando ci sentiamo impotenti: rinunciare ai diritti sul passato e credere che il futuro sia vergine, non scritto.

Dopo Rebibbia, con la comunità del nostro Dicastero ho camminato, dietro una croce, verso la tomba dell’apostolo Pietro. Camminare dietro quella croce mi ha fatto riflettere su cosa voglia dire che Cristo è la nostra speranza. Anche oggi, la morte, la desolazione e l’abbandono non sono l’ultima parola: mi sentivo in cammino con la moltitudine di persone che vivono il disprezzo, l’abbandono, il rifiuto. Ogni giorno arrivano a noi storie così e richieste di aiuto e accompagnamento da Chiese che non si girano dall’altra parte. Chiese samaritane. Cammino e sento con noi chi è pellegrino ben più radicalmente, perché fugge da luoghi non sicuri, di desolazione e di guerra... Portiamo a San Pietro chi viene respinto, le persone a cui viene negata la dignità di essere umani. Tutti dietro a quella croce, con dignità e determinazione. Il futuro non è già scritto. I tempi siamo noi.

È proprio la croce la testimonianza che il futuro non è già scritto, che il nostro Dio è un Dio delle sorprese, che non tutto è perduto, che noi possiamo cambiare. Gesù ha cambiato la morte. La speranza è la capacità di stare nel non ancora, nei passaggi, anche dolorosi, che ci sono chiesti, nelle trasformazioni che siamo chiamati a vivere. La speranza è una virtù rischiosa, come dice Papa Francesco. Risurrezione che cos’è, altrimenti? Vivere l’anno santo per i cristiani significa confessare che Dio ha preso posizione davanti a ogni croce. È risorto il crocifisso: non per una naturale capacità della vita di resistere alla morte, ma per la soprannaturale qualità dell’amore che sa svuotarne dall’interno la definitività. Confessare che la vita umana si può rinnovare sempre, in ogni istante, che sempre si può ricominciare, sempre si può voltare pagina, sempre. «Morivo con te sulla croce: oggi con te rivivo».

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