mercoledì 8 luglio 2015
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Alla vigilia della calendarizzazione in Senato del disegno di legge costituzionale di riforma del bicameralismo e del sistema regionale, il governo e la sua maggioranza (non ampia, a Palazzo Madama) si trovano davanti all’alternativa fra la conferma del testo uscito a gennaio dalla Camera dei deputati e una revisione, più o meno incisiva, di esso, che viene domandata da varie parti. Non si tratta solo di un problema di tattica parlamentare: da un lato l’importanza della riforma in corso – che sarebbe la più incisiva dal 1948 a oggi – induce a ponderare meglio i cambiamenti su temi di importanza centrale come il rapporto Stato-Regioni e il sistema bicamerale; dall’altro la riapertura del dibattito sulle questioni affrontate nel progetto di legge costituzionale rischia di rallentare i tempi e di mettere in discussione la tabella di marcia ipotizzata dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, che immagina la conclusione dell’iter parlamentare entro l’inizio del 2016, per convocare il referendum confermativo nella successiva primavera, magari contemporaneamente alle elezioni amministrative. E la tempistica non è affatto un dettaglio: lo slittamento dei tempi è infatti la principale arma degli avversari delle riforme. Per questi motivi presenta un certo interesse un documento, firmato da 25 senatori della minoranza del Partito democratico, che – sotto l’accattivante titolo 'Avanti con le riforme costituzionali' – propone un’incisiva revisione del disegno di legge Renzi-Boschi. Secondo il documento, poiché la nuova legge elettorale «incide a fondo sulla forma di governo, con la previsione di un solo momento elettivo in cui la scelta del Presidente del Consiglio è direttamente collegata alla determinazione dell’unica assemblea legislativa detentrice del vincolo di fiducia», ciò rende necessario «rimeditare sull’impianto della riforma costituzionale in atto, sui bilanciamenti e contrappesi», in un «quadro fortemente maggioritario». In tale quadro, secondo il documento, «chi vince governa, ma chi perde deve avere reali poteri di controllo sull’operato della maggioranza». Ne seguirebbe un’esigenza di radicale ripensamento del bicameralismo previsto nella riforma costituzionale: occorrerebbe rinunciare al modello della Camera delle autonomie territoriali, eletta non più a suffragio universale, ma dai Consigli regionali (al loro interno e fra i sindaci) per sostituirla con un Senato di garanzia, eletto direttamente dai cittadini (come oggi) e dotato di forti poteri di partecipazione a importanti atti di indirizzo politico, in posizione paritaria con la Camera. La proposta della minoranza Pd non consiste in alcuni ritocchi al bicameralismo sinora consolidatosi nella riforma, ma in un ripensamento radicale. Si tratterebbe di un altro modello di Senato, anche se non di un’idea nuova: il Senato delle garanzie era infatti contenuto nella proposta di legge costituzionale elaborata nel 1997-98 dalla Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Una soluzione che venne giudicata all’epoca un ripiego, frutto della resistenza del Senato come istituzione, che per la prima volta il disegno di legge Renzi-Boschi sembra essere riuscito a piegare. Una simile impostazione muove da un forte timore per la concentrazione del potere nel vertice dell’esecutivo e dall’idea che le garanzia delle minoranze debbano consistere in poteri di blocco rispetto alla maggioranza parlamentare e che tale ruolo di blocco vada situato all’interno del Parlamento nazionale. Un approccio che esalta indebitamente i rischi di concentrazione del potere presenti nell’Italia attuale: se è evidente una tendenza al personalismo nella gestione del potere da parte dell’attuale presidente del Consiglio (personalismo che si manifesta soprattutto all’interno del governo, nel quale la dimensione carismatica prevale su quella istituzionale), le maglie dei contropoteri e dei poteri di veto restano fortissime, se solo si pensa ai contropoteri istituzionali (Corte costituzionale, magistrature, capo dello Stato, opposizione parlamentare, struttura articolata dei partiti di governo), sociali (la ben nota natura corporativa della società italiana) ed esterni allo Stato (le Regioni e le autonomie territoriali da un lato, l’Unione Europea e gli altri attori internazionali e sovranazionali dall’altro). In questo scenario, se una cultura della riflessione prima della decisione è comunque necessaria, non è affatto vero che i contropoteri siano assenti nella società italiana e nelle sue istituzioni. Il problema è invece far funzionare il sistema istituzionale, anzitutto dotandolo di un motore decisionale adeguato: in questo senso l’Italicum va nella giusta direzione, anche se non è privo di eccessi (come il premio alla lista anziché alla coalizione) e se è deficitario dal punto di vista del ripristino del circuito della rappresentanza (il nodo dei capilista bloccati). Ma anche la riforma costituzionale del bicameralismo va nella direzione giusta: dare al sistema delle autonomie territoriali una voce nel Parlamento nazionale, secondo un’opzione che negli ultimi 15 anni è prevalente nel dibattito sulle riforme (come può vedersi, fra l’altro, dalla relazione della Commissione riforme del governo Letta). Semmai si tratta di ritoccare alcuni specifici meccanismi su cui il bicameralismo viene costruito nella riforma, agevolando il ruolo di controllo – ma non di veto – del Senato nel procedimento legislativo, come pure si propone in alcuni passaggi del documento della minoranza Pd. Ma proporre un altro tipo di Senato – oltretutto poco convincente – appare, a questo punto del percorso riformatore, un po’ come spedire la palla in tribuna. Serve altro per far fare un passo avanti al dibattito sulle riforme. 
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