L’astensionismo e il senso perduto della “polis”
giovedì 15 giugno 2017

L’astensionismo e il senso perduto della “polis” Si è molto parlato, in questi giorni, dei vincitori e degli sconfitti del voto di domenica scorsa. È stata anche segnalata, con allarme, in particolare su queste pagine, la crescita dell’astensionismo, con i votanti scesi al 60%, sette punti in meno rispetto alle amministrative del 2012. È necessario però tornare e insistere sul significato che questo fenomeno assume in una tornata elettorale specificamente dedicata al rinnovo delle amministrazioni comunali. Si attribuisce spesso l’astensionismo alla lontananza della politica, fatta nei palazzi del “potere romano”, dai reali problemi della gente. Il cittadino medio a volte stenta a rendersi conto che le leggi varate nelle aule parlamentari incidono poi in modo decisivo sul suo tenore di vita quotidiano e, di conseguenza, è via via diventata più forte in lui la tentazione di considerare irrilevante la scelta dei suoi rappresentanti a livello nazionale. In questo caso, però, non si trattava dei “massimi sistemi”.

Non erano in questione le grandi scelte della politica economica e di quella internazionale, ma i problemi che le persone si trovano a vivere nella loro quotidianità – la qualità dei trasporti, l’accesso agli asili-nido, la pulizia delle strade. Per questo il livello dell’astensionismo in queste elezioni deve preoccuparci ancor più di quello nelle consultazioni nazionali. Perché rivela la perdita, in larghe fasce della popolazione, non solo del senso dello Stato, già da tempo consumata, ma anche dell’appartenenza, più elementare, alla comunità cittadina, da cui dipende, anche terminologicamente, la cittadinanza. Perché una città non è innanzi tutto un insieme di edifici, di strade, di servizi – quello che i latini chiamavano urbs – ma un tessuto di relazioni umane che stringono coloro che ne fanno parte in un unico destino (in latino, civitas, in greco polis). Lo stesso insieme urbanistico, con le sue strutture di cemento e di pietra, non è altro che il racconto che questa comunità fa di se stessa nel tempo, costruendo, ricostruendo, o anche semplicemente abitando gli edifici, le strade, le piazze.

È a questo livello che si dovrebbe acquisire il senso della cittadinanza politica, imparando nella vita di ogni giorno cosa significa perseguire, con i propri sforzi e i propri sacrifici, un bene comune che può rendere più umana la vita di tutti e da cui trae la sua esistenza la comunità. Senza questa esperienza, il grande racconto con cui la città esprime se stessa, sia pure in una fisiologica diversità di toni e di punti di vista, si disgrega in una babelica molteplicità di rivendicazioni, di proteste, di accuse reciproche. E se questo accade nell’ambito cittadino, c’è da aspettarsi purtroppo che diventi impossibile, a maggior ragione, quella partecipazione responsabile al governo della nazione che la formula democratica implicherebbe.

La reazione più drammatica, di fronte a questa involuzione, è la muta disperazione di chi, evidentemente, percepisce l’irrilevanza della propria voce in questa Babele al punto di rinunziare perfino alla contestazione. È un atto di denunzia, più eloquente di qualunque “voto di protesta”, della difficoltà delle nostre città di essere ancora raccolte intorno a dei fini che siano veramente comuni, e non rispecchino solo interessi di partiti, di gruppi, se non addirittura di singoli. Il problema allora riguarda la qualità della cittadinanza non solo di quelli che si sono astenuti, ma anche di coloro che sono andati a votare e degli amministratori che sono stati eletti. La risposta corretta a questa crisi non sono certo gli slogan propagandistici che in questi giorni vincitori e vinti si scambiano, pensando già alle prossime occasioni di scontrarsi e di misurare le proprie rispettive forze. Si tratta, piuttosto, di avere il coraggio di ripensare la politica a partire dall’esperienza concreta della polis, della città.

E il primo passo da fare, al di là delle diverse prospettive in campo, è di restituire alla gente la sensazione di essere ascoltata e di poter avere un ruolo nel decidere il destino comune. Questo comporta che si cerchi di creare – in tessuti urbani dove proliferano quelli che Marc Augé chiama “non luoghi” – spazi di comunicazione tra i cittadini, e tra i cittadini e i loro amministratori. Comporta soprattutto, però, che questi spazi si aprano dentro le persone. Per far rinascere dal basso la vita pubblica bisogna metter mano, proprio a partire dall’esperienza delle città, a una radicale opera di (ri)educazione alla cittadinanza, su basi non solo tecniche, ma innanzi tutto etiche. Se non vogliamo che sempre più numerosi siano coloro che si rintanano nel privato, non perché peggiori degli altri, ma per disperazione.

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