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Un condominio di Kiev centrato da un missile russo, metafora della casa comune ridotta in pezzi dalla guerra - Ansa
Nelle domeniche dell’Anno Santo “Avvenire” ospita voci credenti e laiche per offrire spunti di riflessione a partire dalle grandi domande giubilari: qual è oggi la speranza che “non delude”? Quali speranze ci guidano nel futuro? Su che basi crescono i progetti di vita, le attese, i sogni? E la società a che speranza attinge?
Siamo nel mezzo di un “cambiamento d’epoca”, avvertiva papa Francesco, che parlava anche di «terza guerra mondiale a pezzi». Da parte loro, alcuni scienziati sostengono che siamo a un bivio tra la sopravvivenza o l’estinzione dell’umanità sulla terra. In effetti, se non prendiamo decisioni più drastiche per frenare il cambiamento climatico il pianeta rischia di essere inabitabile. Anche la minaccia nucleare fa capolino (il nucleare tattico!?), per non parlare dell’invasione della “Tecnica” (l’Intelligenza artificiale?!) che giunge sino alla manipolazione del genoma umano. Intanto continuano a crescere le disuguaglianze e la miseria... e tante altre contraddizioni.
Il Novecento – tra i secoli più crudeli della storia umana, pur con gli incredibili progressi – ha proiettato le sue ombre amare in questo secolo: l’attentato alle Torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001, la crisi del 2008, la pandemia del 2020 e le guerre in Ucraina e in Terra Santa con le altre 57 aperte e il clima di odio che sembra crescere ovunque. Sì, il mondo lo stiamo già facendo a pezzi. Purtroppo non ci sono visioni unitive che facciano intravedere un mondo solidale. La globalizzazione è stata del mercato, non certo della fraternità. Karol Wojtyla diceva bene: «L’uomo soffre soprattutto per mancanza di visione». Aveva ragione. Oggi siamo senza visioni, ciascuno è come ripiegato su sé stesso, non importa se individuo, città, etnìa, nazione o gruppo di nazioni. E, senza visoni comuni, il futuro è davvero buio per tutti! Come sperare?
Il cristianesimo contemporaneo ha la responsabilità di aiutare l’umanità a sperare. Per questo è necessario – indispensabile – un sussulto evangelico perché la Chiesa (tutte le comunità) sia “sale della terra” e “luce del mondo”. C’è bisogno di offrire all’uomo contemporaneo – spaesato e solo – la visione della fraternità tra i popoli. Deve essere un compito non solo dei cristiani ma di tutti gli uomini di buona volontà. Certo, la Chiesa è chiamata a rivivere quella simpatia immensa per l’umanità di cui parlava Paolo VI al termine del Concilio. Va recuperato lo “spirito” del Concilio perché i cristiani, assieme agli uomini di buona volontà, si pongano al servizio del Vangelo per una fraternità universale. Papa Francesco lo aveva ben compreso. E ci ha offerto le coordinate di una nuova visione che dovrebbe appassionare le menti e i cuori di tutti i popoli, a partire dai cristiani.
Con l’enciclica Laudato si’, ha delineato la “casa comune” di cui tutti dobbiamo prenderci cura – è l’unica che abbiamo! –, e con l’altra enciclica Fratelli tutti ha indicato l’unica famiglia che abita questa casa, una famiglia composta da tanti popoli, l’uno diverso dall’altro, eppure formanti un’unica famiglia. Queste due encicliche ci permettono di sognare il futuro dell’intera famiglia umana. È una visione congeniale al cristianesimo ma che affonda le radici nelle profondità dell’uomo e di ogni popolo a qualsiasi fede e cultura appartenga. Uomini e donne, credenti e non, tutti siamo chiamati a una nuova alleanza per edificare un mondo che sia casa per tutti. Sì, una casa, una famiglia, una tavola da cui nessuno è escluso. Questo è il disegno di Dio sul mondo e che, nel Giubileo, dovremmo riscoprire, iniziando ad attuarlo.
Ovviamente non è l’effetto di un algoritmo o di un calcolo dei vantaggi. Va favorita la logica dell’affezione reciproca, che il cristianesimo, fin dalle sue origini, ha concepito come fraternità universale e interpretato come prossimità a tutti e particolarmente ai poveri. È un’indicazione impressa a caratteri di fuoco nel Vangelo. A volte ci sono sembrate indicazioni di buoni sentimenti, invece sta a fondamento della vita comune: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato [...] Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25, 35-40). La fraternità indicata dal Vangelo è la via da seguire e da riproporre ovunque. Del resto siamo tutti interconnessi: prima riusciamo a comprenderlo prima saremo una vera comunità globale riunita sotto il segno della fraternità. Dobbiamo comunicarlo a tutti, nessuno escluso.
Senza fraternità non c’è futuro. Nel 2040 saremo circa 8 miliardi e mezzo di persone nel mondo. E un terzo abiterà nelle periferie povere delle megalopoli. È una moltitudine di “io” l’uno accanto all’altro. Ma se non c’è un legame fraterno questa moltitudine si trasformerà in individui gli uni contro gli altri. L’arcivescovo ortodosso di Albania, Anastasio, da poco passato al Cielo, con grande sapienza diceva: «Il contrario della pace non è la guerra, ma l’egoismo». In effetti, le guerre nascono e si sviluppano in un terreno di persone egocentriche, interessate solo al proprio “io”, ai propri interessi, non importa se individuali o di gruppo, o di nazione. Ed è quanto mai saggia l’affermazione di Edgard Morin – anch’egli più che novantenne – che afferma: «La fraternità è un mezzo per resistere alla crudeltà del mondo».
E' nell’orizzonte della fraternità che va riscoperta la missione della Chiesa in questo inizio di millennio. La prima comunità cristiana, subito dopo la prima Pentecoste, non si presentò come un gruppo di individui bensì come una comunità che divenne – lo dirà bene il Vaticano II – segno e strumento dell’unità tra tutti i popoli. I cristiani non vivono la loro fede individualmente, e neppure si rinchiudono nel proprio piccolo recinto. I cristiani – proprio per la forza del Vangelo – sono chiamati a suscitare un popolo nuovo che fermenti il mondo con il lievito della fraternità. Un grande teologo del Novecento, Henri De Lubac, diceva: « La fede non è un deposito di verità morte, che si mettono rispettosamente “da parte”, per organizzare senza di esse tutta la vita... Per conservarsi soprannaturale la carità non è costretta a farsi disumana: come lo stesso soprannaturale, non si concepisce se non si incarna. Colui che si sottomette alla sua legge, lungi dal liberarsi con ciò dai suoi legami naturali, mette al servizio della società di cui la natura l’ha fatto membro un’attività tanto più efficace quanto più libero ne è il principio”( Cattolicismo, p.278).
La Chiesa comunica il Vangelo esistendo come Comunità, mostrando che si può vivere effettivamente una comunione nuova e pacifica. Gli antichi Padri, per spiegare questo, presentavano i cristiani come l’anima del mondo, ossia il principio spirituale della fraternità tra coloro che vivono nella città e nel mondo. Se i cristiani ricercano solo la loro personale salvezza tradiscono il mandato affidato loro da Cristo che è, appunto, analogo a quello che l’anima ha per il corpo. Senza l’anima le parti del corpo sarebbero sparse e senza unità. L’intera “società” sta a cuore alla Chiesa, nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Per piccola che sia, la comunità cristiana deve avere davanti a sé la società di cui è chiamata a essere l’anima. La Lettera a Diogneto avverte: « Dio ha assegnato loro (ai cristiani) un posto tale che non è loro lecito tirarsi indietro» (VI,10). I cristiani debbono impegnarsi per la vita della città sapendo che la destinazione finale è raccogliere tutti per realizzare la città del Cielo.
Papa Leone XIV fin dalle prime parole del suo pontificato ha chiesto una Chiesa che allarghi le sue braccia per accogliere tutti, tutti, tutti, anche i nemici perché si guardino negli occhi. E immaginò l’apertura come le due braccia del colonnato di Bernini che si allargano sulla piazza della vita. Questa Chiesa dalle braccia larghe e aperte può aiutare il mondo a vivere un nuovo umanesimo. È la vera contestazione a un mondo che spinge a chiudersi negli individualismi (dei singoli o dei gruppi, non importa: qui “ego-ismi” e “noi-smi” si equivalgono). La Chiesa è una madre che continua ad allargare le sue braccia perché tutti possano trovare consolazione e salvezza. È il senso dell’antico detto dei Padri: « Non si può avere Dio per Padre se non si ha la Chiesa per madre». Appunto, la Chiesa come madre!
Arcivescovo, presidente emerito Pontificia Accademia per la Vita