mercoledì 3 dicembre 2008
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I tuareg del Mali dicono: «Saremo ricordati per il colore dello nostre tracce». Vogliono intendere per il cobalto del fiume Niger che, dopo aver tracciato un ampio arco, pare che voglia fuggire rattristato per le condizioni miserevoli del Paese, per il verde della vegetazione lambita dalle sue acque, per l’ocra del deserto e per il rosso delle povere casupole modellate nel fango. Questi colori, tanti tantissimi tuareg non li hanno più visti, perché la cataratta ha appannato i loro occhi riducendoli alla cecità. È una tragedia della povertà, e il fiume Niger fugge via anche per questo. Nel Mali, uno dei cinque Paesi più poveri del mondo, manca di tutto: anche la luce negli occhi dei suoi abitanti. E i vecchi che non vedono e che si trascinano con i loro bastoni si sono procurati bambini-guida, come in Occidente i ciechi hanno i loro bei "cani" ben curati.Ogni cieco ha un suo piccolo schiavo che vive con lui, che – comprato e sottratto alla famiglia per una ciotola di riso al giorno – lo accompagna, dorme e mangia con lui e spiega con i suoi occhi giovani i colori del Mali che il vecchio non può vedere. È una tragedia nella tragedia, sempre figlia della povertà. Adesso, però, qualcosa sta cambiando, grazie a "Ridare la luce", una missione umanitaria svolta dall’Aeronautica Militare, dai Fatebenefratelli e da Alenia Aeronautica, con l’apporto di diverse aziende private. Insieme, hanno ridato la luce quest’anno a 750 persone del Mali, curando, con quello che nelle nostre cliniche è un intervento di routine, ma che nell’Africa Subsahariana ha il sapore e la dimensione dell’eccezionalità, le loro cataratte. Quelle tende bianche che sono scese sulle loro pupille e non fanno più vedere l’ocra del deserto e il cobalto del grande fiume. Lo hanno fatto nel Mali, quando sistematicamente è arrivato un C-130 che portava nel corpulento suo pancione medici, attrezzatura scientifica e, soprattutto, tutta la necessaria carità. Una carità che cresce, perché quest’anno gli interventi sono stati trentadue in più del 2007. Ha detto una volta fra’ Massimo dei Fatebenefratelli, uno degli artefici di questa missione: «Siamo spinti dall’impegno cristiano. Noi che godiamo di buona salute, abbiamo l’obbligo di aiutare quelli che soffrono». Come c’è la tragedia nella tragedia, c’è anche una salvezza nella salvezza: quella dei bambini-guida che, per essere legati ai loro ciechi, non hanno mai potuto correre e giocare, non hanno mai frequentato una scuola e, se pure hanno potuto vedere con i loro occhi sani quei colori, non per questo hanno sorriso. Lo stesso bisturi porta la luce ai vecchi e la libertà ai loro piccoli servitori. La stessa operazione guarisce e rieduca, perché così finalmente i bambini possano tornare a scuola, possono imparare, possono giocare e, soprattutto, cessa un misero e triste mercato, poiché non sempre la guida dei ciechi è un loro figlio o un nipote, ma è un bambino venduto e, per poca cosa, incatenato. Sono gli occhi di chi non vede. Raccontano i chirurghi guidati dal generale Manlio Carboni, capo del Corpo sanitario dell’Aeronautica Militare, egli stesso oculista e altro protagonista di questa missione, che tutte le volte che un cieco apre gli occhi, i primi ad esultare sono i bambini. Buttano il bastone e corrono felici. La cataratta era per loro una catena. Quella della loro schiavitù.
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