sabato 19 aprile 2025
Per una singolare circostanza il ventesimo anniversario dell'elezione (19 aprile) di Benedetto XVI è coinciso con il giorno del «nascondimento di Dio», in cui nel 1927 nacque e fu battezzato
Benedetto XVI appena eletto Papa

Benedetto XVI appena eletto Papa - Ansa

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Per una singolare coincidenza il ventesimo anniversario della elezione di Benedetto XVI, che ricorre oggi, cade di Sabato Santo. È un giorno importante, nella vita di papa Ratzinger, quello che precede la Pasqua. Era infatti un Sabato Santo anche il 16 aprile 1927, quando il piccolo Joseph vide la luce e fu battezzato, come si usava allora, nel corso della stessa giornata. Circostanza alla quale il futuro pontefice attribuiva grande importanza, come scriveva nella sua Autobiografia pubblicata ben prima di diventare Papa. Ed era un sabato, ancorché non santo trattandosi del 31 dicembre 2022, anche il giorno in cui si concluse la sua vicenda terrena.
Benedetto XVI, il Papa del Sabato Santo? Certamente ebbe con questo giorno un rapporto molto intenso. Nella sua catechesi del 19 marzo 2008 sottolineava: «Il Sabato Santo è segnato da un profondo silenzio. Mentre attendono il grande evento della Risurrezione, i credenti perseverano con Maria nell’attesa pregando e meditando. C’è bisogno in effetti di un giorno di silenzio, per meditare sulla realtà della vita umana, sulle forze del male e sulla grande forza del bene scaturita dalla Passione e dalla Risurrezione del Signore». Non si ritrova qui l’eco di una vita spesa a riflettere, da grande pensatore e teologo qual era, sul mistero della Redenzione?
Ancora più esplicito papa Ratzinger fu nel discorso sulla Sindone, pronunciato a Torino il 2 maggio 2010, in occasione dell’ostensione del sacro lino, definito «icona del Sabato Santo», cioè del giorno del «nascondimento di Dio». Un’eclissi – notò – che «fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più». «Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki – spiegava il Papa –, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita e in modo particolare interpella noi credenti».
Vent’anni dopo, l’eredità del pontificato di Benedetto XVI, mai compreso fino in fondo, anzi spesso bistrattato dai media, rifulge proprio nell’ottica della mistica del Sabato Santo, terra di nessuno sospesa tra la certezza della morte corporale e la speranza della Risurrezione. Joseph Ratzinger è egli stesso icona del fedele che resta su questo ponte con la stessa fede incrollabile di Maria. È infatti la mistica del Sabato Santo ad aver ispirato molti suoi atti simbolici, pastorali e magisteriali.
Ad esempio, la scelta di mettere sul suo stemma la figura di Corbiniano, il santo che in viaggio verso Roma vide il suo cavallo ucciso da un orso, ma riuscì ad ammansirlo e caricarlo dei suoi bagagli, segno di chi non dispera di fronte a nessuna circostanza, anche la più sfavorevole. E anche il passaggio dell’omelia di inizio pontificato, il 24 aprile 2005 – «Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi» – va in quest’ottica. Il Sabato Santo è infatti proprio il giorno in cui tutto sembra perduto. Il giorno delle “belve” che scorrazzano cercando di convincerci in tutti i modi (e soprattutto attraverso il pensiero ateo e razionalista) che non c’è niente e nessuno in grado di rotolare via la pietra che sigilla ogni sepolcro.
Nel Sabato Santo della contemporaneità Papa Ratzinger ha dovuto fronteggiare proprio questa sfida, anche contro i lupi “interni” alla Chiesa, come attesta la sua lotta contro gli abusi. Allo stesso modo si batté contro i «venti di dottrina», dai quali mise in guardia fin dalla Missa pro eligendo Pontifice del 18 aprile 2005 («dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo»). Ma non rinunciò mai a tendere la mano ai non credenti in un dialogo franco e senza pregiudiziali, come nel Cortile dei Gentili, o quando chiese alla cultura dominante di non pensare più etsi Deus non daretur, ma al contrario «come se Dio ci fosse».
Egli è perciò anche il Papa delle tre virtù teologali, cui non a caso dedicò altrettante encicliche - Deus Caritas est, Spe salvi e Lumen Fidei -, l’ultima delle quali ripresa e fatta propria da Francesco. In tal senso invitò costantemente la Chiesa e il mondo a guardare oltre la morte, proprio a partire dalla morte di Cristo che, scrisse proprio nel già citato discorso sulla Sindone, «ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte».
La sua mistica del Sabato Santo è anche questo. Ricordare che «in quel tempo-oltre-il-tempo in cui Gesù Cristo è disceso agli inferi, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto», è successo «l’impensabile». L’Amore «è penetrato “negli inferi”». Perciò «anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori».
L’eredità di Benedetto XVI è dunque una profonda professione di fede cristologica e di speranza nella vita eterna da rilanciare anche oggi, in un mondo segnato su larga scala dalla morte. E in definitiva è testimonianza di carità profonda (la carità della verità) per gli uomini e le donne del nostro tempo, disorientati da quei «venti di dottrina», che purtroppo continuano a soffiare impetuosi.

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