mercoledì 30 ottobre 2013
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Caro direttore,un ragazzo che muore, un giovane che si toglie la vita apre una ferita profonda in chi lo ha messo al mondo e cresciuto, in chi l’ha conosciuto e gli è stato amico o fratello, una ferita che difficilmente si cicatrizzerà, perché chi lascia bruscamente la vita in qualche modo condanna chi resta a un dolore senza soluzione. È accaduto a Roma, lo avete scritto tutti sui giornali: un ragazzo di 21 anni si è gettato dall’undicesimo piano di un edificio. Gli hanno trovato addosso un biglietto: «Sono gay. L’Italia è un Paese libero, ma esiste l’omofobia e chi ha questi atteggiamenti deve fare i conti con la propria coscienza». Il sindaco di Roma Ignazio Marino ha dichiarato: «Dobbiamo sradicare la violenza di chi colpevolmente diviene la matrice di questi terribili eventi. Sono ferite che Roma non può accettare». Certo, anche un solo ragazzo che muore è troppo, e il messaggio che il giovane ha lasciato deve farci riflettere, ma la reazione di molti, che credono che la soluzione si possa affidare a una qualche legge, deve far riflettere altrettanto. Siamo certi che il mezzo per sradicare la violenza sia una legge? È come invocare la punizione corporale per quei figli che non sappiamo educare. Quante volte è capitato ai ragazzi timidi, a quelli balbuzienti, alle ragazze sovrappeso, a chi porta gli occhiali o l’apparecchio per correggere i denti, o anche a quelli definiti secchioni di essere messi all’angolo, di non essere invitati alle feste, di essere ignorati, derisi o sbeffeggiati. Ma credere che ci possa essere una legge che impedisce questi atteggiamenti se pur crudeli, è anacronistico. Anziché mettermi in gioco, anziché chiedermi cosa posso fare io, affido a una legge il compito di eliminare il male dal mondo. Fosse così semplice, l’Italia sarebbe un Paese perfetto, c’è una legge per tutto... Invece questo suicidio dice ancora una volta che gli uomini hanno bisogno di compagni di viaggio, di gente disposta a condividere la fatica di vivere. Abbiamo tutti bisogno di un abbraccio, non una legge ci salverà, ma uomini e donne capaci di farci sentire amati. Nerella Buggio, Nova Milanese
Gentile direttore, il suicidio di una persona, specialmente di un ragazzo, è sempre una tragedia che ci interpella: siamo veramente capaci di ascoltare, di accogliere, di dare parole e gesti di amore? Sono tragedie enormi, ma ciò che non condivido è la loro strumentalizzazione ideologica. Stavolta soprattutto da parte di alcuni portavoce di movimenti gay. Un celebrato commentatore, in tv, ha addirittura scomodato Platone, facendolo diventare un vero e proprio teorico della ideologia "gender"... Ma com’è possibile parlare di un tema così delicato come quello della sessualità in pochi secondi? È un tema complesso, che rimanda a quello più ampio del disagio vissuto dai giovani nella nostra società . Ma spesso basta solo parlare e problematizzare il tema della omosessualità per essere immediatamente etichettati come omofobi. Sono d’accordo con quanto ha affermato lo psicoterapeuta Giancarlo Ricci sulle pagine di "Avvenire": ciò di cui aveva bisogno quel ragazzo non era né di una ideologia, né di una legge, ma di un sostegno psicologico – e aggiungo spirituale – per poter capire quello che stava vivendo e per poter sviluppare la propria soggettività e umanità.Luca Spini, PratoLa penso come voi, cari amici. Nessuna legge può cambiare davvero il cuore, lo sguardo e le azioni (o le inerzie) degli uomini e delle donne. La legge (e qui si sta evocando l’ipotesi di legge contro l’omofobia) può limitare i danni rispetto a un male evidente (l’intolleranza cialtrona e violenta nei confronti delle persone omosessuali), o può persino aumentarli (producendo effetti liberticidi e suscitando reazioni ostili alla super–tutela solo per un gruppo specifico). E purtroppo che una legge faccia danni o li moltiplichi non è solo un’ipotesi di scuola, e questo non soltanto nel nostro Paese... Tutto ciò lo penso e lo dico da tempo, perché ho grande rispetto per la legge, ma ne ho ancora di più per l’educazione morale e civile che è sempre frutto di istruzione, ma anche e soprattutto di testimonianza, di esempio, di passione. Solo un’educazione davvero buona stronca le intolleranze. Non dobbiamo stancarci di ripetercelo: la realtà non si cambia con i proclami, ma con la vita che siamo capaci di vivere. E le disperazioni non si arginano, le ferite esistenziali non si risanano con codici e sanzioni, ma con azioni positive, con la vicinanza, col farsi prossimo, col non rassegnarsi alla banalità cattiva dell’indifferenza, del dileggio e della sopraffazione. Certo, non siamo tutti missionari, ma siamo tutti cittadini. E da cattolici siamo consapevoli di qualcosa di ancora più prezioso e decisivo: siamo tutti fratelli. Ce ne ricordiamo quando i casi della vita ci mettono davanti a situazioni drammaticamente coinvolgenti: allora, siamo anche capaci di imprevisti e imprevedibili slanci “eroici”. Stentiamo invece a rammentarlo, quando il disagio è più “normale” (e, magari, anche dissimulato per pudore o per paura) e, dunque, c’è da misurarsi con la feriale fatica di guardare in faccia l’altro e di saper ascoltare il suono continuo, avvolgente e spesso stridulo della sua povertà, della sua sofferenza, della sua solitudine. E questo non vale di certo solo per una “categoria” di persone... Vale per tanti, tutti quelli citati da Nerella Buggio e ancora di più. Ma conta fino a un certo punto fare l’elenco delle “categorie” interessate. Io, poi, da ciò che scrivete proprio come voi, sono di quelli che gli uomini e le donne non riescono neppure a pensarli dentro a una categoria o a una sottocategoria dell’umano, ma come persone uniche e originali, come membri di una comunità, come storie intrecciate. E so anche che nessuna storia personale può venire piegata dentro teoremi di comodo (come quello del “gender”, cioè del cambiamento a piacere della propria identità sessuale) sino a negare la verità fondamentale della nostra comune umanità. Per un po’ si può mentire e forzare persino l’evidenza, e si può farlo addirittura per legge, ma non per sempre. Per sempre c’è solo – e ciascuno di voi, cari amici, lo sa dire con bella efficacia – la nostra insopprimibile necessità di sentirci riconosciuti, rispettati e abbracciati. Io la chiamo la nostalgia dell’Amore dal quale veniamo tutti. E al quale, che lo ammettiamo o meno, vogliamo tornare.
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