giovedì 2 dicembre 2010
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Caro direttore,in questi giorni lo stiamo (fortunatamente) ripetendo in molti: bisogna garantire agli ammalati e alle famiglie il diritto di far sentire la loro voce, ma ancor prima è necessario far rispettare quel dovere dello Stato, spesso negato, di garantire il pieno diritto di cittadinanza alle cure, all’assistenza domiciliare, all’accesso a tutti gli ausili disponibili. Si tratta di un diritto costituzionale. Dopo il diniego di Fazio a dare visibilità a coloro che tutti i giorni lottano strenuamente per vivere, grazie all’appello di Avvenire si sono aperti spazi di riflessione all’interno di molte trasmissione Tv (pubbliche e private). Bene! È un ottimo viatico. Confesso però che coltivo una preoccupazione. Ho scritto un libro ("Vivi – storie di uomini e donne più forti della malattia" (Lindau)), pubblicato "fuor di polemica" e nelle librerie dal 21 ottobre; ebbene so quanto sia difficile far passare il messaggio, offrire una narrazione differente sui temi eticamente sensibili. Questo giornale, come altri "luoghi" storicamente attenti alla centralità della persona, da sempre si occupa dei diritti negati, dell’uomo, della vita. La mia preoccupazione nasce dal timore che gli spazi oggi conquistati rispondano "mediaticamente" a una logica di contrapposizione, contro una trasmissione o in diatriba nei confronti di taluni personaggi televisivi. Sarebbe un errore imperdonabile, se dopo la buriana di queste settimane, una volta spente le luci delle telecamere tutto ritornasse come prima. I soggetti in discussione non sono e non debbono essere i contenitori televisivi, i commentatori pro o contro, bensì i protagonisti di questo dibattito: le famiglie e gli ammalati. Coltivo questa preoccupazione, pur ritenendo estremamente prezioso quanto sta accadendo. Il diritto degli ammalati non può e non deve mai diventare tema da inserire nelle scalette dei palinsesti di quando in quando, come strumento per rincorrere le polemiche dell’attualità, ma impegno civile di tutti e sempre. Così fosse, faremmo tutti (e uso volutamente un "noi" ampio, per non sottrarre alcuno dalle proprie responsabilità) un grave torto proprio a chi oggi chiede voce, ascolto, un gesto di accoglienza. Il ritorno al silenzio sarebbe un atto blasfemo. Oltre ai deficit assistenziali e sanitari, al surplus di burocrazia che grava sulle spalle di coloro che portano il dolore come presenza costante nella propria vita, la solitudine costituisce l’elemento più nefasto. Non permettiamo che, svanita la "vis polemica", questi uomini e queste donne, ritornino mestamente nel silenzio.

Fabio Cavallari, Mesenzana (Va)

Per noi di Avvenire, caro Cavallari, non c’è un "prima" e un "dopo". Nel senso che non staccheremo di certo l’attenzione. Ma so bene che non è qui il cuore della sua preoccupazione, che si concentra, piuttosto, sullo sguardo della tv oggi dominante. Entrambi, infatti, sappiamo che questo sguardo, che sa anche essere oltremodo insistente, quando è invece rivolto su impegnative storie di lotta per la vita e sui veri e più delicati diritti (come quello di cura) diventa spesso fulmineo ed è sempre volubile. Ma io confido, da inguaribile ammalato di ragionevole speranza, che in questo strano novembre 2010 sia finalmente scattato qualcosa in chi pensa e costruisce programmi radiotelevisivi e coltiva, ovunque lavori, una vocazione di servizio pubblico. Colgo anche qualche bel segnale in tal senso. Del resto, incontrare le storie di vita e di lotta, che lei racconta nel suo prezioso libro e che noi di Avvenire proponiamo con rispetto e urgenza da cronisti, cambia gli occhi e tocca il cuore di chiunque. Spinge a chiedere più amicizia e più giustizia, a lavorare e premere per una medicina davvero umana, a rifiutare ogni abbandono e ogni rassegnazione. Ci si riempie tanto la bocca di diritti vagheggiati e di libertà affermate, ma questo dovere di solidarietà e di riconoscimento della piena dignità di chi è malato o disabile – che non è dovere dei soli credenti e che nessuna coscienza può eludere – è un "prima" che non può più conoscere "dopo" di assenza e di distrazione, di rimozione e di censura. Lei e noi ne siamo consapevoli, caro amico. E non per polemica, ma per amore e per civiltà. Questo è tempo di saper guardare.
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