Questo sport è un'azzurra e semplice meraviglia
martedì 21 settembre 2021

Nell’Italia dello sport che aspetta Mourinho e Allegri, che celebra guru e santoni, vince la semplicità. Chi per spiegare il successo agli europei maschili di pallavolo cerca alchimie tattiche e ghirigori sui tablet resterà deluso. Nel momento più difficile, quando sotto di un set gli azzurri rischiavano di lasciarsi andare, il tecnico Fefè De Giorgi ha abbassato sul naso gli occhialetti da zio buono e ha scrollato i suoi ragazzi con una carezza ruvida, una strigliata che pareva un buffetto. «Stiamo giocando la finale dell’Europeo, adesso siamo punto a punto e vi vedo con queste facce che non si possono guardare».

Una frase che ricorda la mamma del «figlio mio come sei pallido», con in più il «coraggio!» del prof alla maturità: dài, che hai studiato. Poco prima il ct-prof-bravo zio era stato ancora più chiaro: «Non dobbiamo per forza tirare più forte e più angolato: giochiamo!». Perché l’abbiamo complicata con paroloni inglesi, ci riempiamo la bocca di spikes (schiacciate) e di block-out (mani e fuori) ma la pallavolo resta uno sport di squadra semplice dove il solista può poco senza una buona base musicale, con la differenza, rispetto alle orchestre classiche, che qui a volte i fiati possono eseguire lo spartito degli archi e viceversa. De Giorgi lo sa bene, perché nella stagione dei fenomeni allenata da Velasco, lui giocava in regia, era palleggiatore, che è un po’ il cuore della squadra, l’uomo che di volta in volta deve decidere il compagno su cui puntare, scegliere a chi affidare il colpo che si spera possa regalare il punto. In Polonia il suo alter ego in campo è stato Simone Giannelli, più o meno il Jorginho della nazionale di calcio, a sua volta oro continentale ma a Londra. Entrambi premiati come i migliori giocatori del torneo.

Un mix di tecnica e geometria, di fosforo e talento, a dettare la marcia, pallone dopo pallone, provando a disegnare ogni azione come se fosse la prima. O l’ultima. È molto merito loro se l’estate dei successi azzurri iniziata con il calcio, l’estate dei Jacobs, dei Tamberi, di Paola Egonu e delle azzurre del volley, di Bebe Vio in pedana e al Parlamento europeo, sembra non finire mai. Tanto da poter “riscaldare”, da voler colorare d’oro anche l’autunno, se il Ganna fenomeno di ciclismo, dopo Olimpiadi e Mondiali su strada vincerà in pista ad ottobre. La verità è che senza accorgercene abbiamo coltivato una generazione di velocisti, di saltatori, di ginnasti, di funamboli del vento domato sulle due ruote, di magnifici solisti e, ancora più sorprendente, di campioni disposti a farsi gregari per il bene (leggi: la vittoria) di tutti.

Ora si tratta di capire se sotto la crosticina decorata, sotto la glassa dolce della torta c’è un impasto che vale, lavorato bene, destinato a durare. Se i campioni rappresentano l’avamposto di un movimento in crescita o solo la vetrina luccicante di un negozio con gli scaffali vuoti. L’impressione però è che si possa credere nel sogno, che parecchi dei talenti vittoriosi, molti giovanissimi, non si siano ancora neanche espressi del tutto, che dal tennis al basket, dai Sinner e Musetti ai Niccolò Mannion, ci sia altra grande qualità che spinge per venire fuori.

Abbozzi di fenomeni, spesso già temprati dalla vita all’estero, lontano da casa, magari con l’accento straniero, ma non per questo con meno tricolore tatuato sul cuore. La cosa davvero importante, l’unica che chiedono, anche senza dirlo, che non può mancare, è uno sguardo tecnico eppure amico che nel momento del bisogno ti sappia dire: come mai quella faccia? Coraggio, giochiamo. Perché a dispetto di guru e santoni, di superman e predestinati, lo sport, ogni sport è una cosa semplice. Meravigliosamente semplice.

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