Questi duri giorni di morte e tutto l'orrore dimenticato
sabato 19 marzo 2022

Caro direttore,

ventiquattro giorni di morte. Perché la guerra è questo. Tutti scrivono. Tutti guardano. Prima solo il Covid. Adesso l’antidoto all’ossessione del morbo è diventato una paura più grande: quella di trovarsi travolti (noi europei, noi italiani) dalla Terza guerra mondiale.

In televisione e alla radio perfino i programmi che di solito raccontano di cialtrume ballerino si vedono costretti a inventare un nuovo corso per parlare dell’Ucraina. Le intervistate più gettonate sono le badanti nostrane. Quelle che fino a un mese fa venivano fatte lavorare come animali da soma (in Ucraina curano 'la sindrome Italia', una certa schizofrenia da fatica che affligge le nostre badanti) e che oggi sono diventate le vere dive del dolore.

Oggi divido la mia casa con Natalia, una signora ucraina con 4 ragazze che si trovano ancora lì, morte di paura. Cerco di starle vicino. Ma non è facile, poveretta. Le sta vicino anche la signora dove lavorava prima. Peccato che ieri la facesse dormire su una poltrona puzzolente, oggi, improvvisamente, la chiama tutti i giorni per commentare i servizi della tv e conoscere i patimenti della sua anima. Perfino l’inquilino più cattivo del palazzo le ha offerto uno sgabuzzino per ospitare almeno due delle figlie. Prima nemmeno la salutava...

Insomma, un abbraccio cosmico di tutto il quartiere... Certo, è una guerra europea. Una guerra vicina a noi che coinvolge mille interessi, mille pericoli, mille paure. Le conseguenze, lo sappiamo, saranno terribili. Soprattutto per i nostri poveri. Dunque comprensione e partecipazione per tanto rumore sono più che sacre. Di più: gli italiani davanti a questa emergenza si sono mostrati generosi e interventisti (pensate alle migliaia di persone e di associazioni che lavorano per aiutare e accogliere) e sempre pronti a dare senza riserve.

Un'anziana profuga ucraina

Un'anziana profuga ucraina - Ansa

Ma in certi momenti mi chiedo: quanto durerà questo contagio di commozione universale? Non eravamo forse tutti afghani, nell’agosto passato, quando i taleban si erano ripresi il governo di Kabul? Non eravamo noi donne, signore di salotti e femmine serie, pronte ad accogliere le artiste e le calciatrici, le poetesse e le mamme? Oggi sto lavorando a un reportage che racconta lo strazio dell’Afghanistan in questo tempo. Abbiamo girato immagini dove bambine di 15 anni, ma anche ragazzi e uomini mostrano nel fondo schiena certe cicatrici rossastre. Gli afghani sono talmente disgraziati e affamati che vendono i reni per dar da mangiare a figli, fratelli e genitori. Ma... ma... ma... Chi di noi ha più ricordato, passata l’estate, che il popolo afghano è preda di una follia feroce che lo sta condannando a morte? Nessuno. O quasi. Sei impazzita? E tu saresti un’inviata? Con la guerra in Ucraina, davanti a questo disastro pretendi che si parli di Afghanistan? Di terre lontane per le quali la guerra è un’abitudine, forse un prezzo giusto da pagare?

Saresti una giornalista 'buonista' che adesso ricorda patrie distrutte e marcite nel dolore, come la Siria (a dir la verità qualcuno ricorda anche il carnaio di Aleppo, ma solo perché co-autore del massacro è stato Putin, il mostro del momento). Sì, sarei proprio quel tipo di giornalista lì. E che dire della strage nello Yemen e dell’Africa, colpita dalla ferocia di nuovi terroristi che sbranano da anni poveri innocenti? E se questi poverini, perseguitati da guerriglie di pazzi del terrore scappano, ma dopo viaggi e torture di anni affogano nel cimitero del Mediterraneo, c’è forse qualcuno che piange i loro neonati risucchiati dalle onde? In Ucraina ci andrò.

Poi, tra un mese circa, quando la trasmissione notturna che conduco andrà in onda... C’è tanto da raccontare. E da sperare, perché la morte si fermi. E perché gli italiani, dopo aver respirato le immagini così atroci di questa mattanza, sentano, una volta per tutte, che la guerra è orrore per tutti: bianchi e neri e gialli, europei e antartici. Spero che questo dolore diventi almeno un’occasione. Quella di credere, di capire che l’accoglienza, che così generosamente stiamo offrendo ai fratelli e alle sorelle di Ucraina, deve diventare la stessa per i profughi di ogni dove. Per i figli di ogni nazione.

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