giovedì 17 settembre 2015
​Pagano con la vita la difesa di indios e foreste. Una mattanza silenziosa e impunita. (Lucia Capuzzi)
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Non volevano dargli semplicemente una lezione. Né fargli paura, come tante volte avevano provato negli anni. La sentenza di morte era stata emessa, senza appello. Per questo, il 25 agosto, dopo averlo ferito, i killer si sono avvicinati al corpo dolorante di Raimundo Santos Rodrigues, steso sul ponte di Bom Jardím, minuscola cittadina brasiliana del Maranhão. E l’hanno crivellato di proiettili. Lo stesso avevano fatto, dieci anni prima e a tremila chilometri di distanza, gli assassini di suor Dorothy Stang, massacrata ad Anapu, sempre in Brasile ma nel Pará. Due delitti compiuti da mani differenti per un’identica ragione: far tacere chi difende l’Amazzonia dalle mire dei latifondisti, tagliaboschi, fautori di mega progetti minerari o idroelettrici. Un business miliardario. Non stupisce, dunque, che gli ambientalisti siano diventati ormai una categoria sociale ad alto rischio. «In realtà, definirli ecologisti è riduttivo. Sono attivisti sociali a tutto campo», spiega la Commissione pastorale della terra (Cpt), autorevole organismo impegnato nella denuncia dei conflitti agrari e nella lotta alla moderna schiavitù, legato alla Chiesa brasiliana.   «La foresta non è solo flora e fauna - sottolinea ad 'Avvenire', dom Erwin Krautler, vescovo dello Xingu e tra i più noti difensori delle genti dell’Amazzonia -. E’ la patria di numerosi popoli che la abitano da millenni e ora sono minacciati di sterminio fisico e culturale. L’unico modo per impedirlo è battersi per salvare la loro terra». La pensava così anche Raimundo, volontario dell’Istituto per la biodiversità, Chico Mendes, nome del più noto tra i difensori dell’Amazzonia assassinato 27 anni fa. Per questo cercava di proteggere le 100 famiglie di agricoltori della comunità di Brejinho das Onças dalle mire espansionistiche di un potente 'fazendero' (grande proprietario), ansioso di cacciarli dalla Riserva biologica do Guruopi per impossessarsene. E per questo è stato assassinato. Otto giorni dopo, la stessa sorte è toccata a Semião Villhalva, leader della comunità guaranì-kaiowá Nanderu Meragatu del Mato Grosso do Sul. Una settimana prima, i nativi erano riusciti a riappropriarsi della terra strappata loro da un grande allevatore.   Sono 25 gli attivisti ambientali uccisi negli ultimi otto mesi, vittime della guerra silenziosa combattuta in Brasile contro chi si oppone alla distruzione del polmone verde del pianeta. Sarebbero stati 27 se i sicari non avessero 'fallito' con i leader comunitari Elizeu Bergançola e Alexandre Batista de Souza. Tre ecologisti ammazzati ogni mese. Nel 2014, la media era stata di due, per un totale di 29. Il record mondiale, secondo il rapporto dell’Ong Global Witness. La Cpt denuncia l’assassinio di almeno 1.500 ambientalisti in 25 anni, altri 2mila hanno ricevuto gravi minacce. L’intensità del massacro aumenta di pari passo alla deforestazione. Dopo un decennio di 'contenimento' - per la politica avviata dal governo di Ignacio Lula da Silva -, il numero di alberi 'sacrificati' alla fame di soia per la produzione dei biocarburanti e legname pregiato ha ricominciato a crescere dal 2012, al ritmo di 5mila chilometri quadrati di boschi distrutti all’anno. Colpa - sostengono gli esperti - del Codice forestale approvato nel 2011 su pressione dei grandi proprietari. Quest’ultimo ha ridotto drasticamente le aree protette e le pene per i delitti ambientali.   Il Brasile è il caso più drammatico per il mix letale tra l’inestimabile ricchezza del patrimonio naturale, la presenza di un’oligarchia terriera tanto influente da impedire finora la realizzazione di una riforma agraria, l’emergere di nuovi imprenditori legati all’agrobusiness e al boom della soia. Il 'Gigante latino' è, però, solo la punta di diamante di un trend di violenza globale contro i difensori dell’ambiente.  Nel 2014 - sostiene Global Witness - sono stati uccisi 116 attivisti, 21 in più (il 20%) rispetto nei dodici mesi precedenti. La cifra reale, data la forte censura in alcuni Stati, potrebbe essere ancora maggiore. Quel medesimo anno, i reporter che hanno perso la vita in zone di guerra, secondo Reporters Sans Frontières, sono stati 66, quasi la metà. L’America Latina è il Continente più pericoloso per gli ambientalisti: tre quarti del totale degli omicidi - ben 88 - è avvenuto là. Unico Paese non 'latino' ai vertici della tragica classifica sono le Filippine, con 15 omicidi. In Colombia - dove sono stati uccisi 25 ecologisti, la seconda nazione più letale dopo il Brasile - la principale minaccia è rappresentata dai nuovi paramilitari, nati dopo lo scioglimento delle Autodefensas Unidas de Colombia (Auc).   Le cosiddette Bacrim si oppongono al processo di restituzione delle terre espropriate dai gruppi armati agli sfollati interni e incamerati dai latifondisti locali. A questo si aggiunge l’espansione delle miniere d’oro clandestine legate sempre alle formazioni illegali -: un giro d’affari redditizio quanto inquinante. Sempre il prezioso metallo e l’ansia delle multinazionali straniere, in particolare canadesi, di sfruttarlo con miniere a cielo aperto è causa di violenza contro gli ambientalisti in Guatemala, con cinque morti.  Mentre in Perù - nove delitti -, la lotta si concentra principalmente contro il lucroso traffico di legname. In Honduras - con 12 vittime, il dato più alto in rapporto alla popolazione -, l’epicentro del conflitto ruota intorno alle grandi dighe. E alla pressione che queste ultime determinano sulle comunità indigene. Come dimostra la storia di Berta Cáceres, appena premiata con il Goldman per l’ambiente 2015. «Mi seguono ovunque, mi hanno minacciato di rapire me e la mia famiglia», ha raccontato Berta che, nel 2013, ha visto morire tre compagni di lotta contro la diga di Agua Zarca, sul fiume Gualcarque. Il gigantesco invaso taglierebbe i rifornimenti a centinaia di famiglie di etnia Lenca, situate sulle rive del corso d’acqua e da quest’ultimo dipendenti. Il profondo legame tra habitat naturale, terra e popoli indios produce un’inquietante conseguenza: 47 attivisti assassinati (il 40 per cento del totale) l’anno scorso erano nativi.   Se lo sfruttamento economico delle risorse ambientali è la radice della violenza, il suo motore è l’impunità. Dei 908 crimini registrati in 35 Paesi tra il 2002 e il 2013, meno del 10 per cento è stato risolto. Anzi, Global Witness mette in luce una crescente tendenza degli Stati a 'criminalizzare la protesta' delle organizzazioni ambientaliste con leggi ad hoc. Un paradosso. Fra meno di due mesi - dal 30 novembre all’11 dicembre - si aprirà a Parigi la Conferenza mondiale sul clima in cui le nazioni discuteranno le soluzioni per frenare l’inquinamento e un nuovo protocollo contro le emissioni. Nel mentre, però, a livello internazionale, ben poco viene fatto per proteggere quanti già nel concreto - e nell’invisibilità totale - dedicano la vita a proteggere la 'casa comune'. La quasi totalità degli ecologisti morti aveva subito ripetute minacce di morte. «Anche Dorothy era stata intimidita - racconta dom Erwin, amico della religiosa statunitense massacrata il 12 febbraio 1988 -. E lei lo sapeva.  Ne abbiamo parlato dieci giorni prima della sua morte. Prima ha scherzato, dicendo: 'I sicari non avranno il coraggio di far del male a una vecchia…'. Poi è diventata seria è ha aggiunto: 'Ho fiducia in Dio e so che mi starà sempre accanto. Preferisco concentrarmi sulla vita invece di pensare alla morte'». Una frase in linea con il comportamento della suora di fronte ai suoi assassini. Quella mattina di febbraio, dopo aver mostrato loro la sua 'arma': la Bibbia e aver letto le Beatitudini, suor Dorothy ha salutato i killer e li ha benedetti. Poi, sono arrivati gli spari e il corpo è caduto fra terra e foresta.
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