Divide di più il direttorio franco-tedesco
mercoledì 23 gennaio 2019

Non senza una buona dose di umorismo nero, qualcuno lo ha già ribattezzato il «Patto d’acciaio». Di certo quel Nouveau Traité sulla cooperazione e l’integrazione franco-tedesca tenuto a battesimo ieri ad Aquisgrana da Angela Merkel ed Emmanuel Macron – formalmente niente di più che un robusto aggiornamento del Trattato dell’Eliseo del 1963 – avrà conseguenze politiche più profonde di quanto non appaia.

Diciamo subito che l’intento di Parigi e Berlino (ridare impulso e vigore all’unità europea, fronteggiare la crisi finanziaria e il problema dell’immigrazione, rafforzare la collaborazione nell’ambito della difesa e della politica estera) non solo è legittimo, ma sul piano puramente concettuale è assolutamente condivisibile. Da lungo tempo Francia e Germania – dopo che per secoli si sono affrontate in guerre fratricide costate milioni di vittime – cercano, e non di rado perseguono, un sorta di fratellanza che le spinge a mettere in comune programmi, politiche, progetti e perfino l’ipotesi un Consiglio dei ministri franco-tedesco.

In buona sostanza, quell’asse Parigi-Berlino che richiama da vicino l’impero carolingio che sta all’origine dell’Europa moderna e non è certo un caso – i simboli contano sempre e svelano molto – che la firma del Trattato si avvenuta ad Aquisgrana, nella cui cattedrale riposano le spoglie di Carlo Magno. «Germania e Francia – si è premurato di precisare Macron – devono rendersi conto della responsabilità che hanno in quest’Europa e devono indicare la via».

Non occorre indagare a fondo sul significato di queste parole del presidente francese: da esse trapela senza sforzo l’orgoglio transalpino di guidare la riscossa europea attraverso un direttorio condiviso con la Germania, che in altre epoche ha fatto da motore sia all’economia sia all’integrazione. I tempi però sono cambiati.

L’Unione Europea, già lacerata dalla tormentosa vicenda della Brexit e resa in qualche modo orfana dal distacco che l’America di Donald Trump mostra nei confronti dei vecchi alleati europei (da qui il proposito del Trattato di ammettere la Germania quale membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite), affronta alla vigilia delle elezioni di maggio l’urto annunciato di una falange populista-sovranista dalle cento facce, il cui collante comune tuttavia è quello di scardinare l’architettura con cui è stata edificata l’Unione facendo leva sul diffuso rancore che le troppe diseguaglianze, i tanti errori nel 'rigorismo a ogni costo' e la insopportabile sordità sulla gestione umana e razionale dei flussi migratori hanno generato.

Viene da chiedersi, dunque, se questa riedizione dell’asse franco-tedesco, il cui scopo di rilanciare un’Europa democratico-liberale e combattere l’onda nera dei populismi è più che trasparente, non finisca per irritare e mettere nell’angolo gli altri venticinque Paesi rimasti fuori dal salotto buono. A cominciare dall’Italia, un tempo partecipe degli eventi fondativi dell’Unione e del primigenio asse fondativo, oggi fortemente critica nei confronti di quell’Europa che aveva tenuto a battesimo sessant’anni fa e dei principali partner, e lasciata fuori dalla porta. Per non dire del quartetto di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia), la cui diffidenza nei confronti della 'democrazia liberale' è ogni giorno più evidente.

Ma in anche quei Paesi di sicura fede europeista come l’Olanda, la Svezia, la Finlandia, la Danimarca, l’Irlanda, la Lettonia, la Lituania, l’Estonia, che già si proclamano come Nuova Lega Anseatica, quei 28 capitoli del Trattato di Aquisgrana rischiano di risultare troppo difficili da digerire. Al punto che più di un osservatore si è spinto a ipotizzare che le imminenti elezioni europee potrebbero trasformarsi non tanto in una battaglia delle democrazie liberali contro l’orda xenofoba e populista che guadagna consensi quasi dovunque, bensì in una sorta di referendum sull’Europa franco-tedesca. Danno peggiore, nel caso, non potrebbe esservi.

A chi intestare un domani questo tragico errore? All’eterna voluttà di egemonia cui Parigi e Berlino non riescono mai a rinunciare? All’irragionevolezza di un direttorio così esclusivo nel momento di più acuta divisione all’interno dell’Unione? Alla follia di una classe dirigente sfibrata e senza più idee? Domande con incorporata la risposta. E nessuna soluzione, per ora. E questo è il problema più serio.

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