mercoledì 23 marzo 2011
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Il ragazzo dalla pelle scura sta accucciato tra il mio scooter e un altro, nella lunga fila di motorini parcheggiati nella stradina del centro storico, a due passi da piazza Navona e dalla redazione. Esco che è tarda sera e gli incontri strani invitano alla prudenza. Lo guardo perplessa, un po’ sospettosa, un pizzico di spavento. Non si capisce bene cosa stia facendo in quella posizione. L’aria primaverile è tornata fredda. Mi affretto nei movimenti ma vedo bene che devo passargli accanto per liberare lo scooter dal blockster e lui alza il viso. È molto giovane. In mano ha un mazzetto di rose, di quelle che i suoi connazionali tentano di vendere ogni sera nei ristoranti. Trema. Ma non è per la temperatura. Il suo è un sussulto, accompagnato a un singhiozzo. «Stai male?», gli chiedo con un filo di voce. Mi guarda e non risponde. Forse neanche capisce l’italiano. Continua a tremare. Cerco di razionalizzare, perché l’istinto mi spinge a tentare di capire, ma la ragione mi frena e penso che una donna sola a quell’ora corre sempre qualche rischio. «Stai male, hai bisogno di aiuto?», ripeto con maggiore distacco, forzandomi di trovare un tono più deciso. Lui piange. Gli occhi lucidi mi fissano e inizia a singhiozzare.È struggente: lui un ragazzo apparentemente forte di corporatura, io lì stanca e piena di pensieri e preoccupazioni che si accavallano nella mia mente per una serie di problemi personali. Non so che fare. Mi sento impotente. La sua sofferenza sovrasta la mia. Io, nel raggiungere il mio scooter, mi stavo arrovellando su soluzioni possibili. Lui di soluzioni non ne ha: il suo sguardo è disperato. «Hai bisogno di aiuto?», ripeto inebetita, come se non fosse chiaro che ne ha da vendere. Ma forse quello che ha già venduto è la sua vita. In un attimo scatta in piedi e guarda oltre. Mi giro e seguo i suoi occhi rossi. Lui se li asciuga con il dorso della mano, cerca di darsi un contegno e fissa un uomo dallo sguardo risoluto che passa dietro di me. Gli si rivolge in una lingua straniera, il tono è perentorio, il volto scuro dalla rabbia. Fissa anche me con aria di rimprovero e di sfida e il giovane al mio fianco gli risponde nella stessa lingua guardandolo con aria di scusa. Poi si muove verso la piazza e si gira più volte a guardarmi. I suoi occhi imploranti sono ancora lucidi e rossi. I miei ancora inebetiti e impotenti.Che posso fare, Dio, che posso fare per quel ragazzo? Il tempo è fermo nella mia mente, ma il giovane non c’è già più. Inghiottito dal centro storico della città eterna, dove turisti e romani si attardano davanti ai drink dei locali alla moda. Loro, l’esercito di stranieri dell’Asia (cingalesi, indiani, pakistani), passano quasi inosservati tra i tanti "no, grazie" rivolti alla loro merce, e mai al loro volto. Quello neppure lo guardiamo. Metto in moto la Vespa e mi avvio. Mille nuove domande mi affollano la mente. Cosa avrei potuto fare? Potevo accompagnarlo alla Polizia? Bussare a una chiesa? Portarlo all’ostello della Caritas? Magari, fossi stata un uomo, avrei temuto meno e gli avrei offerto una mano. O forse non avrei potuto fare proprio niente contro un ingranaggio che scarica ogni giorno nelle piazze centrali delle grandi città decine e decine di questi ragazzi senza volto per noi, verosimilmente schiavi di qualcuno che guadagna sulla loro pelle.Mercanti di uomini. Quelli sani che entrano nei ristoranti e con un sorriso timido ci offrono i fiori, che all’uscita dei bar invogliano i bambini con le gigantesche bolle di sapone sparate dalle pistole di plastica o con giochi fluorescenti a basso costo. Quelli storpi che si aggirano per le vie, ostentando sfacciati le deformità per far leva sulla pietà umana. Quelli più spregiudicati (ma a volte costretti a esserlo) che lanciano segnali in codice, forse per segnalare punti di spaccio di merci illegali. Un racket. Com’è possibile? Perché nessuno riesce a fermarlo? Quanto può essere enorme l’interesse che ci sta dietro? E chi c’è dietro? Le domande si accavallano e io sono arrivata. Salgo nella mia casa calda, dove i miei problemi mi attendono, ma quegli occhi imploranti non mi lasciano. Penso che non è giusto arrendersi. E intanto faccio l’unica cosa che posso nel mio pesante senso di impotenza: "giro" al Cielo quello sguardo implorante, con una piccola umile preghiera.
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