mercoledì 18 febbraio 2015
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Caro direttore,
la tragedia di tante persone morte nel Mediterraneo e l’aggravarsi delle violenze in Libia confermano il fallimento della politica europea e italiana nei confronti del fenomeno migratorio. Stanno esplodendo violenze favorite e aggravate dalla comune irresponsabilità. Ora nella spaccatura tra due governi (Tripoli e Tobruk) si inserisce la violenza dell’Is e di altre bande armate. Chiare sono le parole del vicario apostolico di Tripoli, monsignor Giovanni Martinelli: «Abbiamo pensato a prendere il petrolio, ai nostri interessi, e ci siamo dimenticati del dialogo umano, sincero, tra le parti». Non ci sono parole per definire la crudeltà e la follia dei miliziani dello Stato islamico che ha portato anche all’uccisione di 21 copti egiziani, «uccisi in quanto cristiani», ha sottolineato papa Francesco. Ma dare inizio a un’altra guerra significherebbe aumentare l’orrore, aiutare il terrorismo, produrre altri profughi, viaggi disperati gestiti dalla malavita. Per questo, anche secondo me, occorre affrontare alcune questioni. 1) Aprire corridoi umanitari. Costruire misure che facilitino l’arrivo in sicurezza dei migranti, tagliando il loro legame con la criminalità che sfrutta e uccide le persone che lasciano i propri Paesi e partono per l’Europa proprio dalla Libia. 2) Evitare gli errori del recente passato (2011). L’Italia in Libia ha già dato, sul piano degli interventi militari. Ne vediamo le conseguenze: distruzioni delle strutture amministrative, caos armato e terrorismo spietato contro il quale poi si invoca come “inevitabile” la guerra con una propaganda ben orchestrata. 3) Bloccare la vendita delle armi e ogni rapporto con chi aiuta l’Is, chiamando chi lo guida a rispondere dei suoi atti davanti al Tribunale Penale Internazionale. 4) Riunire i libici attorno a un tavolo, favorire la diplomazia e la cooperazione, coinvolgere l’Unione Africana. L’unico eventuale intervento esterno potrebbe essere quello di un contingente di “polizia internazionale” previsto dalla Carta dell’Onu. Solo il primato della politica può fermare l’orrore, ridurre il dolore, costruire ponti.
Sergio Paronetto, Pax Christi
Le quattro questioni sollevate (e le prospettive che coerentemente ne conseguono) sono più che sensate, caro professor Paronetto. Non a caso sono anche al centro di analisi e azioni culturali (comprese quelle di importanti e impegnate realtà del cattolicesimo italiano e di questo giornale) nonché di alcune ancora flebili, ma benedette, iniziative politiche. È evidente che si tratta di quattro strade difficili, sulle quali bisogna saper procedere contemporaneamente, evitando le scorciatoie delle presunzioni muscolari e delle ritorsioni distruttive, i calcoli biecamente affaristici, i labirinti decisionali del Palazzo di Vetro di New York e le sabbie mobili dei giochi politici inter-africani (in cui cadono ciclicamente anche le ex grandi potenze coloniali). Trovo poi giusto porre al primo posto la necessaria e possibile svolta virtuosa nella gestione dei flussi di profughi di guerra, perseguitati religiosi e migranti economici dall’Asia e dall’Africa. Chiediamo da anni “corridoi umanitari” e campi-filtro che consentano di guardare in faccia coloro che chiedono di entrare in Europa e li liberino finalmente dalle violenze fisiche e morali e dallo sfruttamento da parte dei mercanti di esseri umani. Oggi abbiamo il dovere, e dovremmo sentire l’urgenza, di sottrarre anche in tale maniera decine e decine di migliaia di donne, uomini e ragazzi all’uso politico-propagandistico che i tagliagole del califfato intendono fare di loro e alla parallela strumentalizzazione condotta da populisti e xenofobi di casa nostra, che ora appare infinitamente meno cruenta, ma che in realtà non è meno devastante perché propaga il sospetto, il pregiudizio e l’intolleranza verso i “diversi” (spesso solo per pelle). Correggerei solo una sua affermazione: «Ma dare inizio a un’altra guerra…». Penso anch’io – l’ho scritto ieri mattina in prima pagina – che ogni passo nei confronti di quella che un secolo fa noi italiani chiamavamo la «quarta sponda» debba essere valutato a fondo (e non possa che essere il frutto di una concertazione multilaterale, con protagonisti coloro che, comunque, oggi hanno titolo a rappresentare la Libia, la Lega araba, l’Unione Africana e la nostra Europa). Penso anch’io che a un impegno diretto dei caschi blu dell’Onu – che lei definisce di «polizia internazionale» – si possa e si debba arrivare solo in un quadro di totale chiarezza e, appunto, di ampia concordia. Ma non possiamo dimenticare neanche per un momento (o dare a intendere di farlo) che purtroppo l’attuale “guerra di Libia” è cominciata nel 2011 e non s’è mai conclusa, sebbene noi europei e occidentali facessimo finta che non ci fosse più. È questo uno dei gravi motivi per cui la tragedia del popolo libico e dei migranti che si affollano in quel Paese non accenna a finire. E continua, anzi, ad aggravarsi.
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