«Quarant'anni e ancora precaria. E ciò che è perso lo è per sempre»
mercoledì 31 gennaio 2018

Caro Avvenire,
troppe volte mi viene da pensare a cosa proverei se avessi un lavoro dignitoso che mi consentisse di guardare al futuro senza paure. Ho sempre provato ad immaginare il sentimento che mi avrebbe animato se ciò fosse successo, ma questo purtroppo non è mai successo. E gli anni sono passati... . Ne sono passati troppi. Oggi mi ritrovo a 40 anni ad essere ancora precaria, con quella sensazione terribile di pensare che ormai ciò che di buono poteva esserci non c’è stato, quella sensazione terribile che, se sei stata precaria fino a quel momento, non avrai nessuna possibilità di non esserlo nei prossimi anni, quella sensazione terribile che a tutto ciò cui hai rinunciato – compreso un altro figlio – ci hai rinunciato per sempre. Se prima potevi almeno sognare, sperare... ora ti tocca raccogliere soltanto i cocci di quello che rimane. Governo e Parlamento continuano a concedere agevolazioni alle aziende che assumono giovani fino ai 35 anni. Io comprendo tutto, ma non comprendo il futuro che il Governo ha pensato per chi 35 anni non ce li ha più, e magari un lavoro lo ha perso, per chi ha dei figli da crescere, da far studiare, un mutuo o un affitto da pagare, una casa da mantenere, per chi ogni giorno deve fare i conti con il poco lavoro, i pochi soldi, e le tante rinunce per sé e per i propri figli. Chi si candida a governare il Paese che progetto ha per noi? Per noi che abbiamo deciso di far nascere e crescere i nostri figli in Italia? Per noi che abbiamo creduto in un Paese capace di creare condizioni di vita dignitosa per i propri cittadini? Per tutti i cittadini. Davvero si può pensare che un genitore possa tornare a fare il figlio? A chiedere aiuto ai propri genitori? Davvero si può pensare che una mamma non si senta umiliata nel vedere che i tuoi genitori ti danno un aiuto economico spacciandolo come regalo di Natale? Davvero si può pensare che tutto questo non abbia ripercussioni psicologiche sui nostri figli, che vivono quotidianamente un disagio economico che si traduce anche in un disagio familiare e affettivo? Non ci si può meravigliare se poi i nostri figli decideranno di scappare da qui, avendo vissuto magari un’infanzia e un’adolescenza intrisa di quel senso di ingiustizia sociale che hanno respirato attraverso l’amarezza dei propri genitori. Io non chiedo di avere dei canali preferenziali. Chiedo solo di giocare ad armi pari. Non limitateci ulteriormente. A limitarci ci pensa già la nostra età che viene annotata nei curriculum vitae. È talmente limitante che il resto del curriculum non viene neanche preso in considerazione. Penso che a 40 anni abbiamo ancora il diritto di lavorare e di dare ai nostri figli una vita dignitosa. In altre parole, abbiamo diritto alla dignità, perché chi è precario nel lavoro, è precario anche nella vita. In fondo pretendo solo quello che la Costituzione mi ha promesso da 70 anni: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Carmela Di Carlo Potenza

Era il 1995 e Jeremy Rifkin aveva appena pubblicato il suo famoso “La fine del lavoro”, dove teorizzava una rivoluzione nel mondo industriale e nel terziario e nuovi tempi e modi di accesso al lavoro. “Avvenire” mi mandò a intervistare un sociologo, docente universitario, per capire in concreto quali cambiamenti ci si dovesse aspettare. Il professore mi spiegò del lavoro interinale, a termine, insomma della fine del posto fisso e dell’avvento del precariato, di cui allora ancora non si parlava. Rimasi perplessa: ma senza un contratto fisso, gli chiesi, chi si avventurerà a avere una famiglia, dei figli, o semplicemente a fare un mutuo per la casa? Ci si abituerà, replicò ottimista il professore, per i giovani sarà normale passare da un posto all’altro, senza garanzie. Sono passati più di vent’anni e la signora Di Carlo fa parte della generazione che ha affrontato il precariato. Ora ha quarant’anni ed è ancora precaria: e essere precari nel lavoro, scrive, significa esserlo nella vita. Questa lettera è la testimonianza di un dramma generazionale. Un secondo figlio cui si è rinunciato, nell’ansia di non poterlo mantenere – è anche questa, l’Italia delle culle vuote. E chissà quali altri progetti mancati. Da ragazzi, scrive la signora, si può ancora sognare; a una certa età, restano i cocci. La malinconia di dover accettare un aiuto dai genitori, ancora; l’ansia continua di non farcela. È giusto che la legge incoraggi le assunzioni degli under 35 – nella speranza che almeno questa generazione possa costruirsi una famiglia e un futuro, prima di essere costretta, come già fanno in tanti, a emigrare. Ma, e i ragazzi che avevano vent’anni nel 2000, quelli rimasti precari ad oltranza? Ora la loro data di nascita nei curriculum è già un elemento per scartarli. Occorre, per equità, pensare anche a loro, rimasti a metà fra i padri, supergarantiti, e i fratelli minori cui oggi, resisi conto di quale problema è il precariato, si cerca, con fatica, di dare aiuto. Nel dramma del lavoro che manca, un’ulteriore urgenza: quelli che a 40 anni per il mercato sono “vecchi”, ma il tempo di progettare e di costruire non lo hanno avuto, in questa Repubblica, recita la Costituzione, «fondata sul lavoro». Questa del creare lavoro dovrebbe essere l’urgenza che preme tutti i candidati alle prossime elezioni. Lavoro, e quindi progetti, famiglia, figli, futuro. Per questo abbiamo messo a tema la questione sulle nostre pagine. E lo faremo ancora. Perché sentiamo soprattutto tante promesse di tasse abolite, di “sconti” e altri gadget propagandistici. L’urgenza che brucia, con la famiglia, è il lavoro.

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