venerdì 12 agosto 2016
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Compreremo un altro esame all’università». Una frase gettata lì, come per indicare un comportamento tipico, nel tormentone rap dell’estate canticchiato da (quasi) tutti. Che diventa il simbolo di una parte (purtroppo importante) d’Italia mediocre e cialtrona che si autocompiace dei propri limiti e non va da nessuna parte. In alcuni ambienti si è ormai sparsa la voce che lo studio (inteso come apprendimento di nozioni e competenze) non serve e che l’importante, al limite, è avere un pezzo di carta non importa come. Un’altra di quelle leggende metropolitane che girano e che fanno molto male al nostro Paese.

Gli ultimi dati statistici internazionali riportati dall’Ocse (Education at Glance 2015) raccontano tutta un’altra storia. Documentando che l’investimento in istruzione universitaria ha rendimenti economici e sociali elevati anche in Italia, fanalino di coda nelle statistiche di settore. Viviamo infatti in un Paese dove nel 2014, un terzo degli adulti (25-64 anni) non aveva più della scuola media e dove solo il 24% dei giovani tra 25 e 34 anni aveva una laurea (contro una media Ocse del 41%). In entrambe le statistiche siamo ultimi, superati anche da Messico e Turchia.

Tutto questo ci dà una misura di quanto i nostri giovani stanno investendo in istruzione in un momento storico delicatissimo nel quale la combinazione di globalizzazione e innovazione tecnologica ha aumentato e aumenterà ulteriormente i differenziali salariali per livello di istruzione e capacità e la nuova ondata di automazione renderà obsoleti tutti quei lavori nei quali si impiegano conoscenze ripetitive e non creative, lavori nei quali sono prevalentemente impiegati addetti a basso livello d’istruzione. Un livello d’investimento in istruzione così basso appare non razionale visti i suoi "rendimenti" medi attesi. Gli stessi dati Ocse ci dicono che in Italia i laureati hanno un tasso di disoccupazione quasi dimezzato (6,8 contro 11,7%) e guadagnano in media il 43% in più dei non laureati (e siamo tra i Paesi dove il differenziale è più basso).

Calcolando i costi dell’istruzione, l’Ocse valuta il rendimento dell’investimento in scolarizzazione in Italia pari al 7% annuo per gli uomini e al 9% annuo per le donne. Ma il valore dell’istruzione non è ovviamente solo economico. Le persone istruite in media godono di migliore salute, hanno maggiore fiducia nei loro simili, fanno più attività di volontariato e sono maggiormente in grado di incidere nella vita politica chiedendo conto agli eletti dei loro comportamenti. Con differenze medie nei Paesi Ocse, dati alla mano, che oscillano tra il 5 e il 10% rispetto ai non laureati. Se tutto questo è vero, se l’istruzione è un investimento economicamente e socialmente redditizio nella società globale, c’è da domandarsi perché i tassi di scolarizzazione non aumentano in modo significativo e perché siamo agli ultimi posti delle classifiche.

Proviamo a formulare alcune risposte. I rendimenti della scolarizzazione sono mediamente ancora più alti negli altri Paesi, ma soprattutto – ed è questo un dato molto interessante – i benefici dell’istruzione maturano prevalentemente alla fine della laurea biennale, mentre la situazione dei laureati triennali in termini di tasso di occupazione è analoga a quella di chi ha il diploma di scuola superiore (69-70 contro 80% dei laureati biennali e 90% di chi ha un dottorato). E non è così negli altri Paesi dove lo scalino tra scuola superiore e laurea triennale esiste eccome.

Questo dato segna il fallimento del 3+2, con un’uscita anticipata più facile che invece di consentire di raggiungere opportunità comunque più elevate finisce per offrire con il suo fallimento un cattivo segnale sul valore dell’istruzione. Tutto ciò considerato, non è forse uno spreco che il nostro sistema bancario alla ricerca di investimenti da finanziare raccolga denaro a tasso zero e non finanzi l’investimento in istruzione dei nostri ragazzi che mediamente rende il 7-9%?E che le istituzioni non ritengano questa una delle azioni prioritarie per aumentare le possibilità di sviluppo italiano visto che la creazione di valore economico non è altro che la somma dei redditi dei fattori produttivi e, dunque, quel rendimento va a incidere direttamente sulla crescita? Aggiungiamo a tutto questo che, probabilmente, negli altri Paesi non è in questo momento in voga un tormentone nazionalpopolare che pesca furbamente nel torbido di comportamenti assolutamente poco rappresentativi e autoindulgenti sul terreno della illegalità. Non contribuendo certo a dare ai nostri giovani che canticchieranno il motivo tutta l’estate l’idea del valore e del rendimento economico e sociale dell’istruzione.

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