martedì 8 luglio 2014
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A scrutarli blindati nelle loro celle, alcuni detenuti somigliano tanto in questi giorni alle "rondini stordite" di Daniel Pennac. Storditi e infastiditi, forse anche sorpresi, dalle parole secche pronunciate da papa Francesco due settimane fa: "Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati". Un’affermazione resa ancor più incalzante perché proferita da una persona che, sin dagli albori del suo pontificato, ha stretto un prezioso legame con il mondo degli uomini che vivono reclusi. Eppure Francesco non ha detto nulla di nuovo: ha semplicemente ricordato loro la strada che riconduce a casa, illuminandone una memoria offuscata dall’ambigua menzogna che sin dalla Genesi è la traccia stessa del Male. In questi giorni, incontrandoli in carcere, la sorpresa è notare come il Male sia solo in apparenza granitico; basta una Parola a scardinarne le fondamenta. Non certo una parola qualsiasi, ma quella che "saetta fiamme di fuoco, scuote il deserto di Kades, fa partorire le cerve e spoglia le foreste" (Salmo 29): la parola che è diventata Presenza per restituire al mondo la bellezza perduta. La fatica del parto, l’asprezza del deserto, lo spoglio delle foreste: l’inaudito che diventa feriale, sin quasi a sorprendere per la sua capacità di generare vita e pensiero. Perché è questa la vera notizia che avremmo dovuto raccontare: non tanto che un gruppo di detenuti di un carcere italiano hanno pensato di non partecipare più alla messa dopo le parole del Papa, bensì l’inaspettata questione di come poter "ripartire" dopo averle ascoltate. E’ la riproposizione di quanto narrato negli Atti degli Apostoli quando, dopo aver ascoltato le parole pronunciate da Pietro, la folla si sentì trafiggere il cuore e disse: "Che cosa dobbiamo fare, fratelli?" (At 2,37). Anche nelle galere, dunque, la questione abita altrove: come fare per non smarrire il legame con la Chiesa, dove attingere quella speranza necessaria per guerreggiare contro l’abbondante disperazione del male, come vivere per tornare a Cristo senza smarrirsi nella dannazione eterna? E’ la vera angoscia della detenzione, laddove la vera sconfitta non è una questione materiale bensì esistenziale: il non sapersi dare delle risposte quando le domande incalzano in maniera urgente, forte, definitiva.E’ qui che entra in gioco la mano tesa di Francesco: non nell’annuncio di una mera scomunica dottrinale ma nell’annunciazione di una salvezza che ancora è possibile, tanto a Ninive quanto a casa mia: "Dio ti sta cercando. Lasciati guardare da Lui per non perderti". Per non cadere in quella che rimane la scomunica più amara e desolante: rimanere senza una comunità con la quale affrontare l’avventura dell’esistenza. Il Papa conosce le logiche del male, i percorsi maledetti della menzogna, i luoghi del sospetto. E i detenuti lo sanno. Sopratutto loro, i grandi "manovali" delle azioni criminali: per questo, forse, devono essere suonate pressanti nelle loro coscienze quelle parole: la perdita di un’appartenenza, il rischio di una solitudine eterna, il fastidio di un’esclusione. Fino a renderli attori e protagonisti di una pagina d’estrema speranza: nei luoghi in cui batte forte il ritmo del Male - fino a fare di certe vite delle periferie vere e proprie - sale forte anche la melodia del Bene. Che coglie di sorpresa, s’incunea nel granito delle false certezze, percepisce l’inedito di una prospettiva diversa.Che la giustizia non cancelli ma si coniughi con la misericordia, è un tema che Francesco raccoglie da Benedetto XVI e rilancia giorno dopo giorno. Con quel tocco che aggiunge di suo, sulla scia di Paul Ricoeur: la giustizia non è un semplice conto da pagare ma sono dei nodi da sciogliere. Per fare questo, però, non bastano le parole di un Papa che sta sulla breccia ma serve un cuore pronto a lasciarsi sorprendere per abbracciare la verità: di se stessi prima di tutto. Come ha indicato il Papa con le sue parole: e come sembrano aver risposto i detenuti col loro inaspettato interrogarsi e interrogare.
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