martedì 30 dicembre 2008
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Alle nove del mattino, pochi minuti dopo che alla radio avevano detto dei quattro ragazzi morti sotto un cavalcavia, sono arrivati i primi. Pallidi, trafelati, in mano il cellulare con cui continuavano a comporre un numero che non rispondeva mai. Un’ora dopo erano in trecento davanti all’ospedale di Civitavecchia, a mostrare una foto, a domandare angosciosamente, di quei quattro morti, il cognome. Trecento padri e madri assillati da un pensiero d’inferno: c’era mio figlio, laggiù? Raccontano le cronache che i soli oggetti con cui i poliziotti potevano tentare una prima identificazione erano i telefonini delle vittime. E li mostravano dunque ai parenti, chiedendo: li riconoscete? A questa scena perfino gli operatori delle tv hanno abbassato le telecamere, in un improvviso pudore. Intanto, qualcuno finalmente riusciva a rintracciare il figlio, e se ne andava in fretta, felice, come quando ci si sveglia da un incubo e si scopre che non è successo niente; e forse con uno sguardo di pietà a quegli sconosciuti che invece restavano, a quelli che, nella lotteria tragica di una domenica mattina, avevano perso. Ma in questo assedio, fra i pianti e gli spintoni di chi voleva entrare per esser certo che il figlio non fosse tra i morti, qualcosa, oltre al dolore, si fa evidente. Trecento padri, solo in una città come Civitavecchia, che non hanno visto tornare dei figli sedicenni, né sanno dove siano, e alla notizia di un incidente mortale si affollano a domandare: è forse lui? Trecento a Civitavecchia, e altrove quanti? Abituati, al sabato notte, a un appuntamento con l’angoscia: sono le cinque, e ancora non torna. L’altra mattina si affollavano davanti a un pronto soccorso come sulle retrovie di un fronte dopo una battaglia, quando arrivano i morti e i feriti. Ma, per quale guerra partono ogni sabato sera quei figli, e perché è normale, in questa guerra, morire? Il ragazzo alla guida dell’auto del disastro, l’unico sopravvissuto, era positivo al narcotest. Il direttore del Dipartimento antidroga presso la Presidenza del Consiglio ha detto al 'Messaggero' che davanti a certi locali, all’alba della domenica, il 45 per cento dei fermati risulta positivo a questo esame. Se è vero, è il quadro di una 'trasgressione' tanto diffusa che forse chi la fa non s’accorge neanche di trasgredire qualcosa. I più sono fortunati: ritornano. A qualcuno, almeno a qualcuno ogni sabato notte, scivola per un istante la mano sul volante. Allora i giornali radio recitano il bollettino dei caduti. E madri e padri sussultano: perché non è ancora qui? Come una guerra, con centinaia di morti all’anno. Come se non dichiarata, e senza alcun razionale motivo, ci fosse una guerra. Ma per cosa partono, e contro quale nemico, ogni sabato? Dentro quale orizzonte oppresso vivono, per evaderne con ansia una volta alla settimana, o per desiderare, e non in pochi, di estraniarsi per una notte dalla realtà? Padri e madri non capiscono, sperano, aspettano. Come impotenti: non sapendo cosa cercano i figli, né perché non è più possibile dare un limite, e essere obbediti. Genitori disarcionati, che si limitano a pregare: tieni acceso il telefono, almeno rispondi. Poi si alzano all’alba, e se il figlio già è a letto gli si allarga il petto in un sospiro grato. Sennò come l’altra mattina, a una notizia confusa, accorrono sgomenti. Non si sa, si sentono rispondere, non si sa ancora. E allora a implorare che il cellulare squilli, e sia lui. Ad aspettare una grazia: no, non è qui. Ma a quale guerra dunque sono andati? Non c’è risposta e forse neanche c’è questa domanda; nel non senso si allungano gli incompresi riti notturni degli adolescenti, e le ore interminabili dei padri, a casa.
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