sabato 5 giugno 2010
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Caro direttore,titolo di un articolo pubblicato sul "Corriere" del 29 aprile: «"Chi adotta un bimbo non scelga il colore" - La linea del procuratore della Cassazione: sarebbe discriminazione razziale». Seguito del 2 giugno: «I giudici e le adozioni: niente bambini alle coppie razziste - La Cassazione: vietate le preferenze sull’etnia - Discriminare in base al colore della pelle è in contrasto con i principi fondamentali nazionali». Coerenza di casta, avrei detto, se non considerassi separate le figure dei giudici e degli inquirenti: allibii allora, allibisco oggi, con l’aggravante di non sapere cosa c’entrino «i principi fondamentali nazionali». O, forse, sono solo una espressione infelice della giornalista! Ma un’altra giornalista deve aver giocato lo stesso giorno (e in modo più complicato) con il titolo di un articolo pubblicato su "Avvenire": «A un figlio che arriva non si pongono condizioni - L’adozione è per dare una famiglia a un bambino, non viceversa. Come nessuna mamma può porre condizioni al figlio che cresce in grembo, così nessun genitore ha il diritto di scegliere il figlio adottivo a sua immagine e somiglianza». Una frittata di bei principi («L’adozione è per dare una famiglia a un bambino, non viceversa») e confusione di regole naturali e civili (statuali). In un mondo in cui si avalla la pretesa di uccidere nel grembo della donna un concepito (un essere umano) vivo e vitale, che dopo si scopre avere solo il labbro leporino, o, addirittura, di essere sanissimo! Ma, nato vivo e buttato su un tavolaccio, l’indomani fu rinvenuto ancora vivente, ma, giustiziato, ormai non più recuperabile. Come si può fare confusione tra un figlio che deve ancora nascere e uno già nato da adottare? Una donna incinta può eliminare il frutto del concepimento cui lei ha dato causa, con la scusa che non se la sente (eppure lo può legalmente abbandonare), mentre una coppia non può fare una scelta che non porta danno a nessuno, ma che supera le sue debolezze: se non ci fosse possibilità di scelta, potrei anche (con tanta buona volontà), capire!

Mario Grosso, Gallarate (Va)

Caro direttore,bene ha fatto Avvenire a dare ampio spazio, in tema di adozioni, alla sentenza della Cassazione che ha stabilito come il decreto di idoneità non può essere emesso sula base di riferimenti all’etnia dei minori. E molto calzante ho trovato il commento di Antonella Mariani. Però... c’è un però che ti racconto per esperienza diretta, da genitore adottivo: quando sei lì che devi fare questa scelta (per noi sono passati oltre dieci anni, ma sembra ieri) prima o poi ti scontri con una raffica di domande: e se arriva un bambino dalla pelle scura, che succede, siamo pronti? E soprattutto: è pronta la gente attorno a noi a vivere con naturalezza quel quadretto di papà e mamma bianchi e il piccolo di colore? E in una città di provincia, benché assolutamente non razzista, non è che poi gli sguardi curiosi e un po’ morbosi diventano mille? E quando andrà a scuola, ad iniziare dall’innocenza degli anni dell’asilo, come si troverà e come verrà accolto? Certo, poi l’amore vince tutto. E figuriamoci quello per un figlio che subito diventa comunque tuo (ma non "tuo"....) figlio. Credimi, però, anche l’amore ogni giorno è una conquista. E certi giorni, a proposito di colorito della pelle, siamo per forza di cose un po’ pallidi...

Igor Traboni, Frosinone

Nessuna confusione e soprattutto nessun gioco, gentile signor Grosso. L’editoriale del 2 giugno di Antonella Mariani è serenamente esemplare anche sotto questo profilo, come del resto i servizi curati quello stesso giorno da Paolo Ferrario. Li rilegga e se ne renderà, certo, conto. In ogni caso, per quanto ci riguarda, alla base di tutto c’è una una pura e semplice constatazione: tra un figlio già nato e un figlio già vivo nel grembo materno non va fatta differenza. Sappiamo bene che nella realtà non è sempre così, ma sappiamo anche che affermare questa verità è più che mai necessario. E – ne sono convinto – anche lei la pensa come noi. I dubbi e le sensate accortezze che tuttavia, con slancio polemico, evoca a proposito della scelta adottiva e che l’amico Traboni testimonia con appassionata efficacia, erano del resto presenti anche nella riflessione di seconda pagina e nell’intervista che accompagnava la cronaca della sentenza. Ma il fatto resta. E resta l’affermazione giuridica del principio che abbiamo condensato e spiegato nel titolo dato al nostro commento: «A un figlio che arriva non si pongono condizioni». Né per il colore della pelle, né per l’aspetto fisico, né per una vera o presunta "insufficienza" (o disabilità), né per il labbro leporino... Un caro saluto a entrambi i lettori.
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