sabato 16 luglio 2011
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Caro direttore,senza cultura come si possono elaborare sintesi e abbracciare gli interessi generali? Come è possibile interpretare i tempi e procedere in unione con il passato? E come afferrare dal presente quelle opportunità che, se non colte, potrebbero divenire iatture nel futuro? Diciamocelo pure, è il deficit culturale che ha maggiormente segnato le comunità dell’era della globalizzazione, limitato le potenzialità, deviato gli scopi e le procedure di singoli e istituzioni. Se le circostanze sfavorevoli capitate in questi ultimi tempi non sono dovute a scalogna, allora significa che non si può più attendere, che sono maturate le condizioni politiche ed economico-sociali. La scarsità di cultura ha portato in Italia una vera devianza dell’etica pubblica. I partiti politici sono segnati da una forte carenza ideale. Essi non hanno disdegnato né candidature considerabili un insulto alla democrazia, né mosse finalizzate esclusivamente alla sopravvivenza e alla conquista di posizioni, a volte veri tatticismi, esagerati se raffrontati all’importanza degli scopi. Non è infrequente che le dichiarazioni dei loro rappresentanti – fra vari cambi di casacca, interpretazione personalistica del potere, dibattiti trasformati in risse – risultino irricevibili, vere giustificazioni pseudoideologiche. Un’offesa, questa volta, all’intelligenza. Anche il modo improvviso in cui si è avviato il fenomeno di sfaldamento del bipolarismo può essere considerato più conseguenza di sfilacciamenti dei rapporti personali e istituzionali che frutto di un progetto culturale finalizzato a dare basi solide alla politica italiana. E che dire dell’attuale legge elettorale, su cui nessuno si decide ancora a metter mano? Così l’esito delle votazioni popolari continuerà a essere falsato anche alle prossime elezioni politiche, a causa di un premio di maggioranza – del 55 per cento dei seggi –, assegnato non a chi ha vinto la competizione elettorale bensì alla minoranza più votata. Inoltre, i cittadini in cabina elettorale continueranno a non scegliere coloro che li dovranno rappresentare, potranno solo prendere atto dei candidati nominati dalle segreterie dei partiti. Una situazione anomala resa ancor più pesante dalla scomparsa dei grandi partiti di massa, che servirono nel dopoguerra da collante fra la popolazione e la politica. Manca in tutto ciò prospettiva e la prospettiva in questo caso è la stessa democrazia; manca anche unione con il passato, rappresentato dalla nostra Costituzione che fu e rimane ancora oggi un grande pensiero, forse bisognoso di adeguamenti, ma da un contesto politico tanto impoverito non si può sperare di ricevere risposta adeguata. La Costituzione è diventata una nobile memoria capace tutt’al più di toccare i sentimenti delle generazioni che assistettero alla sua nascita. Il rischio è che oggi venga usata solo come simbolo ideologico, il peggio che possa capitare al presupposto morale e giuridico-legislativo di una nazione. Così la visione degli interessi generali dello Stato si smontata in tante piccole inquadrature, la corruzione serpeggia perché non ci sono più grandi idee per cui valga la pena spendersi. E intanto la gente annega nel malcontento.

Marina Vitali, Parma

La sua amarezza, cara professoressa Vitali, è vibrante. Ed è in forte assonanza con battaglie ideali che, da anni, sulle pagine di Avvenire trovano tenacemente spazio. Come quella per restituire ai cittadini il potere di scegliere col voto i propri rappresentanti nel Parlamento nazionale, ponendo fine alla ormai troppo lunga stagione delle designazioni degli eletti da parte dei capipartito. Stavolta, però, mi vorrei soffermare su un’altra questione, prendendo spunto dal passaggio del suo ragionamento sulle cause della profonda crisi dell’attuale bipolarismo. È vero che essa sta avvenendo per «sfilacciamento» di rapporti tra diverse personalità che hanno egemonizzato la scena pubblica in questi anni. Così come è vero che non la si può certo definire il «frutto di un progetto culturale» sensatamente alternativo e già ben delineato. Ma è altrettanto vero che nella nostra società – pur drogata dai riti della politica- spettacolo – sta crescendo l’esigenza di ridare «basi solide» all’agire politico. E che sta aumentando anche la consapevolezza di come questo significhi archiviare la stagione delle contrapposizioni leaderistiche e meramente "contro", degli esasperanti frazionismi personalistici e degli ideologismi miopi (ovvero senza valori forti e senza i "pensieri lunghi" che ne discendono). Monta, insomma, in settori importanti e vitali la voglia di lasciarci alle spalle una stagione nella quale "fare" politica ha coinciso con lo "stare" con un capo o ai suoi antipodi, e raramente ha saputo mostrarsi e dimostrarsi l’attuazione della benedetta libertà di prendere (e fare) partito, cioè di mettersi al servizio di una causa secondo ben definiti ideali di riferimento, con disciplina e dedizione, ma concependo e interiorizzando anche una fedeltà che precede e illumina ogni scelta di campo. Perché non basta, non basterà mai, la possibilità di schierarsi e di alternarsi al potere se non si accetta la grammatica dei princìpi che fondano la convivenza civile (che viene prima ancora di quella democratica) e se non si coltiva, con sobrietà e misura, il senso dello Stato e delle Istituzioni. Per questo, gentile signora, io – che pure non ho visto nascere quel capolavoro di buon diritto e di buon italiano che è la nostra Costituzione – non riesco a concepire la Carta promulgata il 27 dicembre 1947 solo come una preziosa vestigia del passato. È una eredità viva, non immodificabile in diversi titoli eppure straordinariamente attuale e utile con il suo corredo di valori condivisi e condivisibili anche nella "fase nuova" che ci sta davanti. Credo che questa consapevolezza dovrebbe appartenere a tutti, ma in special modo a coloro che con autentica ispirazione cattolica vivono già l’impegno politico o che – ascoltando i ripetuti incoraggiamenti del Papa e dei vescovi – intendono accostarsi a esso. La «cultura» che lei invoca come fondamento di una ritrovata qualità e altezza della politica, cultura che per i cattolici ha il fascino e la profondità della Dottrina sociale della Chiesa, non si esaurisce ovviamente in quella che degnamente abita la nostra Legge fondamentale. Ma in essa, nel suo «grande pensiero» – le rubo questa immagine – la nostra sensibilità cristiana trova laicamente eco robusta e ottima sostanza. E i cattolici, a differenza di alcuni altri, inclini a letture convenienti o studiatamente polemiche, sanno che non si può accogliere a metà – o persino a un quarto – lettera e spirito della Costituzione.

Marco Tarquinio

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