venerdì 15 febbraio 2013
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Un uomo divenuto Pontefice a un certo punto della sua vita, in età avanzata, si rende conto che il suo fisico non regge più come dovrebbe. Quest’uomo si trova ad affrontare problemi gravissimi non solo del mondo (che esistono dall’età della pietra), guerre, povertà, fame, ingiustizia, fanatismi, ma anche pesanti questioni interne alla Chiesa. Affronta gli uni e gli altri con decisione e chiarezza, con umiltà e determinazione. Non teme la realtà, che affronta sempre con la saggezza del filosofo, con quel lieve distacco intellettuale che non è sinonimo di freddezza, ma di razionalità e rigore. Infatti quest’uomo pacato e fermo nel parlare, contemporaneamente sorride sempre, un sorriso un po’ fanciullesco dei bambini buoni che studiano molto, e che non giocano bene al pallone. È abituato a fare i conti con se stesso, grazie alla disciplina del grande studioso, che si adatta sin da piccolo alle responsabilità: bisogna essere sempre all’altezza. Una sorta di atletismo dello spirito, che potremmo rappresentare con la metafora di un alpinista delle origini.La montagna è impervia, misteriosa, bisogna rispettarla. È un esercizio di umiltà, continuo. Quando quest’uomo sente venir meno le energie che reputa necessarie, si interroga. È abituato a mettersi in discussione, è allenato a vivere al servizio: di Dio, della sapienza, del pensiero, dell’umanità, della Chiesa. Si interroga, e si rimette subito all’opera, più vivo e deciso che mai. Quando sente che le forze vengono meno in modo ora preoccupante, al punto di non avere le energie indispensabili, allora decide di mettersi da parte. Non può accettare il rischio di diventare un servitore insufficiente. Non è la realtà esterna, della Chiesa e del mondo, a apparirgli troppo ardua. È abituato da sempre al sacrificio e al coraggio. È la sua realtà fisica che vien meno, e quindi quell’uomo accetta la propria fragilità, la confessa. L’anagrafe attesta che non gli possono rimanere molti anni di vita, potrebbe resistere e chiudere gloriosamente il suo mandato, con la morte. Ma è convinto che in quei non molti anni la sua azione non sarebbe sufficientemente energica, degna del compito. Ama troppo quel compito per tradirlo, anche solo per debolezza e in buona fede.Quest’uomo non conosce traccia di orgoglio, nemmeno quel piccolo orgoglio del bambino che gioca bene al pallone e i compagni ammirano. È tutta la vita che ammira, non immagina minimamente di poter essere ammirato. Come un saggio antico ha forgiato dall’adolescenza il carattere all’insegna della cancellazione di ogni vanità, anche veniale. È umanissimo in tutto, soprattutto nel sorriso, nei lampi di divertimento negli occhi, nel modo un po’ timido in cui procede. Ma delle debolezze umane orgoglio e vanità non lo sfiorano, non lo conoscono. Grandi pensatori latini hanno scritto volumi sulla vera saggezza, che consiste nel non considerare se stessi ma la sapienza, grandi saggi orientali percorrono vie paragonabili di annullamento dell’io.Credo che, a differenza dei saggi antichi e d’Oriente, l’uomo che si chiama Joseph Ratzinger, e che si è dato il nome di Benedetto, di tutto questo non si sia mai accorto. La sua umiltà, prima ancora che un suo merito, forse è un dono. E in questo gesto di umiltà assoluta, dove un uomo così importante si sente simile alla zolla di terra che le mandrie calpestano, parafrasando William Blake, si manifesta una natura capace di grande coraggio. Il coraggio di chi pensa di non possedere nulla, nemmeno la sua sapienza. Non trovo le parole per spiegarlo, ma sento che c’è qualcosa di glorioso, in tutto questo.​
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