giovedì 17 maggio 2012
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​Caro direttore,
è dal 1958, la data del mio primo emozionante esercizio del diritto di elettore, che mi sforzo di condividere quanto lei scrive spesso e che ha richiamato nel suo fondo del 5 maggio, alla vigilia del primo turno elettorale amministrativo, a proposito della politica e del ruolo dei cattolici in essa. Rammento benissimo come la politica, nell’Italia da poco liberata e sotto l’influsso di personaggi di alto profilo morale e professionale quali De Gasperi, Einaudi, Moro… fosse quell’«alto esercizio della carità», che lei evoca e sottolinea, unito a un grande senso del servizio, a una divorante passione civile, a una predisposizione a sostenerla – anche economicamente – con gigantesche azioni di volontariato e sacrifici, pagando di persona. Niente privilegi, niente auto blu, niente scusa classica del «tengo famiglia», niente reti di amicizie pericolose, niente amici manager con compensi stratosferici da utilizzare come moneta di scambio: solo "servire" e nulla "servirsi", avendo mente e cuore nel primato dei valori primari. Tutto ciò è scomparso: ai giganti sono subentrati nani e ballerine. I valori sono stati messi nel cassetto e la politica è divenuta ed è vista come un’immensa mangiatoia, degna di una porcilaia. Credo che abbiamo toccato il fondo, e c’è solo da sperare che regga almeno questo governo tecnico quale ombrello contro i guasti che la brutta politica ha già provocato e potrebbe ancora provocare. Soprattutto perché non vedo alcun segno di rimorso o di pentimento. Nessun segnale vero che si voglia realmente cambiare. Almeno da parte di coloro che dicono di ispirarsi allo spirito solidale del Vangelo mi sarei aspettato qualche segnale "trasversale", forse plateale, ma di forte valenza esemplare: ad esempio la proposta e la sottoscrizione di un impegno in cui si rinuncia a tutti i privilegi e si versa quanto deborda da un compenso dignitoso e ragionevole al fondo della Caritas destinato all’aiuto alle famiglie in difficoltà e ai giovani in cerca di lavoro. Nulla. Caro direttore, vorrei ancora condividere il suo richiamo all’impegno e alla sana politica, ma temo che ormai siamo fuori tempo massimo: quando si è invasi dai pidocchi prima di tutto serve un devastante Ddt (Grillo?) per far crollare un sistema ormai decotto e corrotto e togliere di mezzo chi da sempre è incollato a una qualche poltrona (e che altro saprebbe fare?). Poi si vedrà. Forse, dopo una mano di calce viva, potremo ricominciare, ripartendo dagli onesti e dalla società reale, dal volontariato, dalle associazioni, da chi è disposto a rinunciare ai vantaggi e ai finanziamenti alla politica che sono i veri responsabili di questa situazione pesante e surreale.
Lorenzo Fellin, Padova
Sono nato nell’anno in cui lei ha votato per la prima volta, caro professor Fellin. E ho letto con ammirata preoccupazione la sua vibrante requisitoria (che ho dovuto un po’ accorciare). Credo che leggerla, e rifletterci su, possa fare bene anche a tanti tra coloro che oggi stanno facendo politica sia da cattolici sia con altra (ma comunque alta) ispirazione. Perché continuo anch’io ad augurarmi che non si arrivi alla «calce viva», che non ci sia bisogno del «Ddt», e che si avvii presto una nuova "ricostruzione". Ci sentiamo, infatti, come in un dopoguerra e in un certo senso lo siamo (anche se purtroppo la strana e devastante guerra che è in corso appare ancora lontana dalla fine). Per questo la nostalgia di una classe dirigente e di partiti all’altezza delle necessità dell’Italia e dell’Europa si sta facendo pretesa. Sempre più incalzante, sempre più comprensibile. Non mi stanco di ripeterlo: c’è bisogno di partiti che siano case dalle porte e dalle finestre aperte (cioè democratici e trasparenti), c’è bisogno di leader specchiati, profondamente disinteressati sul piano personale (e ideologico) e invece interessatissimi ai problemi veri della gente vera. Se gli italiani (e gli europei) non vedranno e sentiranno che questa svolta si è prodotta e se non accadrà presto, allora sì che si rischierà grosso.
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