giovedì 23 giugno 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
«Se da Unione africana, Ue, Lega araba e Onu uscisse un appello per la sospensione immediata delle ostilità e un corridoio umanitario negoziato, l’Italia certamente lo sosterrebbe con forza». Sono bastate poche parole del ministro degli Esteri per accendere un dibattito che ha messo nuovamente in luce le incongruenze dell’intervento Nato in Libia.Non si tratta di rinnegare un’azione armata che, nella sua prima fase, ha contribuito a evitare ulteriori massacri di civili da parte del regime di Muammar Gheddafi, bensì di prendere atto della situazione che si è venuta a creare a tre mesi dell’inizio dei raid sul Paese nordafricano.Elementi di perplessità sono il sostanziale stallo della situazione militare, nonostante la pioggia di bombe e missili; il progressivo slittamento della missione autorizzata dall’Onu da protezione dai cieli a regime change, ovvero eliminazione del rais; i tragici errori a danno della popolazione compiuti durante le incursioni, non frequenti, certo, ma in ogni caso mai minimizzabili; e, infine, il problematico sbocco della crisi se risolta solo con il ricorso alla forza, stante una reale divisione delle componenti tribali del Paese.Per questo la via diplomatica, più volte invocata da Benedetto XVI, se coniugata con la primaria preoccupazione umanitaria, resta una via da perseguire con immutata convinzione. D’altra parte, alla creazione di "corridoi" per consentire il soccorso alle popolazioni martoriate dal conflitto non si può giungere senza la collaborazione fattiva dello stesso Gheddafi, che della situazione bellica attuale – è bene non dimenticarlo – rimane il primo e unico responsabile.Il netto "no" alla proposta opposto da Francia e Gran Bretagna, le promotrici dell’intervento contro il Colonnello, si legge facilmente come il rifiuto di ammettere che la strategia seguita finora non ha portato i risultati sperati (e annunciati), dando anche fiato ai sospetti secondo cui dietro l’attivismo di Sarkozy e Cameron vi sarebbero interessi elettorali interni e mire economico-energetiche. È stata successivamente la Nato, pur annunciando la prosecuzione dei raid, a sottolineare che «non c’è una soluzione militare in Libia» e che si darà «il benvenuto a ogni sforzo che possa portare una soluzione politica il più presto possibile».Il nodo non è dei più semplici da sciogliere. Se l’Alleanza tiene a terra gli aerei, Gheddafi fermerà forze speciali e mercenari che terrorizzano gli oppositori del regime e usano lo stupro come arma di guerra? È un segnale di debolezza interrompere il fuoco sulle installazioni militari o si può indurre il rais – se la comunità internazionale si trova unita al tavolo della trattativa – a una tregua che preluda alla vera pace? Avendo difeso, sostenuto e in gran fretta riconosciuto il governo provvisorio di Bengasi, i Paesi occidentali possono legittimamente chiedere a esso di scendere, tutti insieme, a qualche compromesso con la leadership di Tripoli. I compromessi per il bene della pace possono essere dolorosi, ma spesso sono necessari. C’è però una discriminante, come mette bene in evidenza il filosofo Avishai Margalit in un suo recente volume. Vi sono accordi onorevoli e obbligati e accordi moralmente inaccettabili, gli Sporchi compromessi, come recita il titolo italiano dell’opera.A quanta giustizia si può rinunciare per mettere fine a un conflitto? Ottenere l’arresto delle ostilità permettendo a Gheddafi di sottrarsi con l’esilio al tribunale dell’Aja sarebbe una sensata mossa di realpolitik o un vulnus tale da minare la nascente idea di un diritto che tuteli i deboli e le vittime fatto rispettare a livello internazionale? Fino a che punto si possa andare incontro alle richieste del rais – non cedere su nulla rende di fatto impossibile aprire «corridoi umanitari negoziati» – resta un quesito empirico e non di principio. Non siamo di fronte, per riprendere una metafora di Margalit, allo scenario dello "scarafaggio nella minestra", intesa compromissoria che tutto contamina, ma a quello della "mosca nell’unguento", dove la rimozione di un po’ di sostanza consente di salvare il resto. Il dittatore di Tripoli non è il male assoluto, fino a ieri in molti l’hanno corteggiato, con molti altri autocrati si continuano ad avere rapporti stabili. Sicuramente, non è auspicabile una divisione della Libia in due entità. Ma è altrettanto certo che la preoccupazione cui Frattini ha dato voce dovrà essere presa sul serio da tutti gli attori in campo.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: