giovedì 2 giugno 2016
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Purtroppo, anche il dibattito sulla riforma della prescrizione dei reati – da tempo giacente al Senato – si sta ulteriormente impantanando e avvelenando tra polemiche e 'retroscena' strumentali. A dar fuoco alle polveri, in questi giorni, un paio di emendamenti presentati da due senatori del Pd, Casson e Cucca, che per lo più risultano valutati per i loro riflessi sugli equilibri all’interno della maggioranza di governo. Ma si riuscirà una buona volta a guardare soprattutto al merito di certi problemi? Come si sa, in Italia è regola generale che i reati si 'prescrivano' allorché sia decorso un certo lasso di tempo da quando sono stati commessi: diversi, i termini fissati dalla legge, a seconda della specie delle infrazioni e della loro gravità (ci sono anche delitti 'imprescrittibili'); ma il principio è quello. È poi vero che il raggiungimento di ognuna delle varie tappe del processo (e in particolare, la pronuncia delle sentenze di primo grado e di appello) azzera, agli effetti della prescrizione, il tempo consumato sino ad allora: ma continuano a correre, sempre a contare dal momento della commissione del reato, dei termini ulteriori, non troppo più lunghi dei primi; e, i secondi, sono comunque invalicabili. È così che certi delitti, anche gravi, si prescrivono quando il processo è giunto quasi alle ultime battute, mancando soltanto la sentenza di Cassazione. Ed è bene aggiungere che il reato 'prescritto' si estingue automaticamente, rimanendo cioè del tutto privo di conseguenze penali, quand’anche, nei gradi precedenti, vi sia stata condanna del suo autore. Sino ad oggi i nostri legislatori, anche in sede di riforma, si sono per lo più esercitati a una sorta di tiro alla fune, ora con il ridurre, ora con l’aumentare i termini di cui si è detto (vuoi in generale, vuoi guardando soprattutto a certe categorie di reati, come si sta facendo per i delitti lato sensu corruttivi): nel secondo caso, contribuendo ad allungare sempre più i tempi, già biblici, dei nostri processi; nel primo caso, favorendo più che discutibili impunità, senza peraltro contribuire realmente a garantire ai processi una durata 'ragionevole'. È bensì vero, infatti, che attualmente la maggior parte delle prescrizioni si verificano già nel corso delle indagini preliminari: dunque, in una fase in cui le difese non hanno molti poteri d’iniziativa; ma, se spesso sono gli stessi inquirenti a gettare la spugna, è perché sono certi, sulla scorta di facili calcoli, che la mannaia della prescrizione scatterebbe in seguito, sol che gli avvocati proponessero –come capita pressoché immancabilmente – tutte le impugnazioni a loro disposizione. Ciò posto, è forse troppo drastica la proposta dei due senatori 'dem', di cancellare del tutto la prescrizione dopo la sentenza di primo grado: anche se qualche freno va pur messo agli appelli e ai ricorsi presentati soltanto per tenere in vita il processo e guadagnare l’estinzione del reato prima che la blocchi una condanna definitiva, non è da escludere che a tal fine possano bastare le sospensioni di quel corso, che già il testo di riforma licenziato dalla Camera prevede, in corrispondenza dell’avanzare del processo nei gradi successivi al primo. Nella normativa attuale, però, il difetto più insidioso sta, per così dire, nel manico. Per molti delitti (e, tra essi, proprio quelli corruttivi) può infatti passare molto tempo prima che vengano scoperti; quasi sempre, anzi, non se ne conosce l’esistenza se, e fino a quando, a rivelarla non è qualcuno tra i partecipi del patto criminoso. Ecco perché avrebbe un senso far decorrere i termini ordinari di prescrizione dal momento in cui la polizia e/o il pubblico ministero possono realmente cominciare a indagare, ossia da quando perviene loro la notizia del reato (nella variante Casson, verosimilmente per far riferimento a una data certa, si preferisce badare all’iscrizione nell’apposito registro). Così fissato il momento di decorrenza, i termini di prescrizione potrebbero anche essere ridotti stabilmente, per non incoraggiare inerzie o perdite di tempo da parte dei magistrati; e altri termini, decorrenti dal momento della commissione del reato, potrebbero pur continuare ad esser previsti, per evitare di dover instaurare processi quando le prove si siano, tutte o quasi, disperse e per non finire con il fare scontare un’eventuale condanna a una persona totalmente trasformata; ma, questi sì, dovrebbero essere termini molto lunghi (e sarebbe lecito parlare anche di numeri di anni a due cifre) e ne dovrebbe essere escluso l’operare, una volta avviata l’attività processuale. Giustizialismo? Direi di no: piuttosto, sensibilità per il bisogno di una giustizia che non si faccia prendere in giro e non distribuisca regali a chi, oltre a delinquere, ha più mezzi per occultare il reato.
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