giovedì 22 luglio 2010
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L’Italia dei Comuni è a rischio. Per 5.800 piccoli Comuni, quelli con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, pari al 54% del totale, un comma della manovra economica in via di approvazione prevede l’obbligatorietà di associazione per l’esercizio delle funzioni fondamentali. Il che significa che da un certo momento in poi – ma su questo, al solito, non c’è chiarezza – amministrazione, trasporti, rifiuti, servizi sociali, anagrafe, nido, gestione del territorio e dell’ambiente, vigili urbani, mense e acqua dovranno essere gestiti in coordinamento con altri Comuni delle stesse dimensioni e, si immagina, limitrofi. Visto che nel nostro amato Paese tra il dire e il fare legislativo c’è quasi sempre di mezzo il mare – anzi l’oceano – di rimandi, regolamenti, rettifiche, non conviene discutere delle modalità attuative, assai oscure peraltro, ma avanzare alcune considerazioni in materia.Sembra innanzitutto doveroso riconoscere la fondatezza della decisione. Dovendo da sempre ridurre la spesa pubblica – oggi soprattutto per motivazioni di origine internazionale, ieri per un riequilibrio dei conti – sembra logico agire sulla struttura stessa della nostra finanza locale. Tanti piccoli Comuni autonomi significano molti costi fissi e poche economie di scala, in sintesi un dispendio di energie che, al pari di altre cose, non ci potremo più permettere. Tuttavia le resistenze sono state, sono e saranno fortissime. Non tanto e non solo dal mondo della politica e dell’amministrazione locale, che vedranno diluire i propri poteri se non addirittura i posti nei consigli comunali, ma soprattutto dalle popolazioni. Nei suoi centocinquant’anni di storia la debole identificazione con lo Stato nazionale è sempre passata attraverso un forte attaccamento al Comune di nascita e di residenza che, in un Paese dalla relativa scarsa mobilità geografica, spesso coincidono: mi identifico con il mio Comune, che è in Italia. Ciò significa dialetti che cambiano nella stessa vallata a distanza di pochi chilometri, tradizioni enogastronomiche dalle mille varianti regionali e oggi diventate parte integrante dell’offerta turistica, ricorrenze sacre e profane mantenute e riscoperte con orgoglio e un pizzico di interesse in piena globalizzazione. Economia verso cultura, risparmio verso tradizione, Stato verso campanile.Evidentemente non si tratta di una contrapposizione così radicale, di certo però questo modo di impostare la questione ci aiuta a individuare le priorità. Preferiamo, in tempi di federalismo fiscale, almeno teorico, investire sul decentramento e sul territorio, prepariamoci allora a non lamentarci di servizi centrali sempre meno all’altezza di standard europei; se pretendiamo, al contrario, che lo Stato svolga il proprio compito negli ambiti di competenza con maggior qualità dobbiamo essere pronti a rinunciare a qualche servizio comunale sotto casa. La cosa peggiore, ovviamente, sarebbe perdere l’uno senza guadagnare l’altro e qui, credo, la politica si giocherà gran parte del poco credito a disposizione.L’Italia dei Comuni è speculare all’Italia delle piccole e medie imprese. L’imprenditore che vuole fondare un’impresa lo fa normalmente nel Comune di residenza e questo è, in moltissimi casi, un piccolo Comune. L’impresa non cresce in dimensioni anche per questo. Tuttavia è ormai definitivamente accertato che continuare a chiedere alle nostre imprese di fare accordi tra di loro per diventare grandi restando piccole non genera alcun cambiamento. Nessuna ricerca, nessun convegno e neanche nessuna incentivazione fiscale può convincere un imprenditore di successo a collaborare con un suo simile: l’accordo si fa solo quando le cose vanno molto male, e non se ne può fare dunque a meno, o quando c’è una grande e chiara opportunità da cogliere. Forse nel caso dei Comuni ricorrono entrambe le condizioni.
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