venerdì 14 dicembre 2018
Il fenomeno dei 'gilets jaunes' e il parallelismo con i 5 Stelle: stessa rabbia sociale, nessun legame politico Ecco come la grande crisi ha cambiato le istanze di chi governa
Piazze, populismi e governo: perché la Francia non è l'Italia
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Quale sarà la prossima fortezza ad essere espugnata? Quale Bastiglia è destinata a cadere sotto il peso implacabile del governo delle opinioni, della piazza vociante che sentenzierà per l’ennesima volta l’imminente fine di un’epoca? Nel momento in cui Emmanuel Macron prova a correre ai ripari inseguendo le sirene populiste, le cancellerie occidentali si interrogano, al netto della campagna elettorale già in corso per le prossime Europee, sul ritorno delle manifestazioni di popolo in questa fine d’anno: la rivolta dei gilets jaunes in Francia è l’ultima fase, tutt’altro che pacifica, della protesta dei vinti della globalizzazione, della mobilitazione di periferie e campagne contro i centri della modernità, di vasti strati di quella che fu la borghesia nei confronti dei nuovi ricchi. Nello stesso tempo, quanto sta accadendo ha degli effetti legati alla cosiddetta fast politics, la politica dell’istante, destinata a ridefinire non solo leadership e governo, ma anche l’essenza stessa della nostra democrazia. Tra egualitarismo di massa, della serie 'uno vale uno', e fascinazione per l’uomo forte, punta dell’iceberg di quella che gli esperti chiamano la 'democrazia del leader', siamo in presenza di un cortocircuito senza precedenti.

Dal primo V-Day di Beppe Grillo agli scontri sugli Champs Elysées di novembre e dicembre 2018, è trascorso più di un decennio. Un periodo in cui «l’unico denominatore comune per il mondo occidentale è stata la Grande Crisi. Infinita, mai del tutto superata, oggi nuovamente minacciosa» sottolinea Mario Rodriguez, docente di Comunicazione pubblica all’Università di Milano. Una sorta di battaglia per la sopravvivenza quotidiana: così è stata vissuta questa fase da diverse fasce sociali. Determinante è stata la distanza creatasi tra le pouvoir d’achat, il potere d’acquisto, e le pouvoir de vivre, il potere di vita, che ha fatto dire a uno storico come Pierre Rosanvallon che «le vecchie categorie sono superate e non si può più ragionare solo in termini di indicatori economici». Nel frattempo, due altri fenomeni hanno rimodellato il volto della società. Il primo è stata la progressiva disintermediazione, «ormai non più di tipo sociale, ma culturale. Una volta c’era il riconoscimento dell’expertise, del saper fare. Ora non è più così» spiega Rodriguez. Il secondo elemento è stata la delegittimazione dell’autorità. «Per capirci, un buon tasso di populismo nella seconda metà del Novecento c’era anche nel Partito Comunista e nella Democrazia Cristiana, ma veniva tenuto a bada da leader autorevoli. Adesso no, la circolarità delle opinioni ha messo in crisi chi dovrebbe stare in cima alla piramide decisionale». Il mix di questi due fattori ha rappresentato una miscela esplosiva, deflagrata nelle ultime settimane.

Contemporaneamente, è avanzata in modo impressionante la crisi di rappresentanza dei partiti politici, quella che Cristopher Cepernich, professore di Sociologia dei media all’Università di Torino, attribuisce alla «mancata rappresentanza degli interessi. Attenzione, però, a pensare che la crisi sia dovuta all’avvento dei social network: le reti sociali ci sono e ci saranno sempre. Piazze reali e piazze virtuali sono e resteranno legate». Questo interessa, a maggior ragione, l’Italia, il primo caso di governo populista al mondo frutto dell’accordo tra due forze diverse. «È un fatto che Roma abbia anticipato ancora una volta dei fenomeni sotterranei in atto in molti Paesi del Vecchio continente» riflette Rodriguez. L’antipolitica di qualche stagione fa è diventata programma di governo. «Si sceglie la piazza o perché manca una rappresentazione di popolo o perché c’è qualcosa che non funziona nella costruzione dell’aggregazione del consenso» osserva Cepernich. La piazza semplifica, mette insieme cose diverse, concretizza in una giornata esperimenti sociali che per anni sono sembrati impossibili. «Ma è la patologia del sistema, perché ne segnala la febbre, e non lo stato di salute» aggiunge Rodriguez. Il caso dei gilets jaunes spiega che è solo la rabbia sociale a fare da collante, in questo momento, tra diversi segmenti della società civile francese: operai con il posto di lavoro a rischio, ceto medio messo in crisi dalla globalizzazione, giovani senza apparente futuro. Obiettivi diversi che, se da un lato garantiscono una certa effervescenza a questo movimento, dall’altro, come dimostra la minor mobilitazione avvenuta sabato scorso a Parigi, rendono chi contesta più simile all’esperienza italiana dei 'forconi' o del 'popolo viola' piuttosto che ai Cinque Stelle.

Ad avvalorare questa tesi ci sono alcuni aspetti decisivi di (mancato) marketing politico: in Francia, prima della reazione della piazza, non c’è stata alcuna costruzione di vere e proprie infrastrutture politiche (alla Casaleggio & Associati, per intenderci). Non solo: tutto è stato abbastanza caotico, con una discreta per quanto improvvisata organizzazione in Rete e sul territorio, ma nessun traguardo politico fissato, almeno al momento. «Di identico, tra Cinque Stelle e gilets jaunes c’è soltanto la stessa capacità di mobilitazione sui temi» aggiunge Cepernich. Potranno beneficiarne, in modo indiretto, le componenti estreme del sistema politico francese, da Marine Le Pen a Jean-Luc Mélenchon, in chiave anti-Macron? «Ci stanno già provando – risponde Mauro Calise, ordinario di Scienza della Politica all’Università di Napoli –. È una convergenza di interessi complicata, ma il tentativo di ripetere quel che è accaduto in Italia tra Lega e M5s è nei fatti».

Dietro al tentativo avvenuto nelle ultime ore da parte di Grillo e Di Battista di intestarsi la primogenitura dei giubbetti gialli, c’è soprattutto il tentativo di difendere un brand di successo, quello dell’antipolitica, più che la voglia di mettere il cappello su un nuovo movimento che sorge e la cui natura politica è tutta da decifrare. Il paradosso di questi tempi riguarda semmai le leadership, le loro fulminee salite agli altari e le altrettanto repentine cadute nella polvere. «Chi comanda, assume su di sé sempre maggiori oneri e onori, caricandosi di nuove responsabilità nei confronti dell’opinione pubblica – spiega Cepernich –. In questo senso, l’identità di leader effettivamente 'dopati' dal bisogno di consenso è mutevole, mentre i rischi di logoramento a cui gli stessi si sottopongono sono alti. L’esperienza di governo finisce così per bruciare in fretta molte personalità». L’impressione è che, oltre ad alcune carriere politiche, siano in gioco adesso anche la storia e il prestigio di istituzioni durate secoli.

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