martedì 8 marzo 2011
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Ma chi sta vincendo la guerra civile che da set­timane sta sconvolgendo la Libia? La rispo­sta più facile è più vera è che per ora sappiamo so­lo chi la sta perdendo: il popolo libico nel suo com­plesso, che si ritrova a pagare un conto salatissimo alla sua aspirazione di libertà. Gheddafi non è Mubarak e neppure Ben Ali: non ha la grandezza tragica del primo e l’opportunismo da ladruncolo del secondo. È un megalomane san­guinario che non ha esitato e non esiterà a mette­re in campo tutte le risorse di cui dispone pur di continuare a essere il padrone assoluto del Paese. Dal suo punto di vista, non ha neppure alternative: dopo l’improvvida richiesta di processarlo di fron­te al Tribunale penale internazionale, e sempre che non voglia trascorrere i suoi ultimi anni sotto la pro­tezione dei suoi amici Mugabe e Chavez, deve ten­tare di vincere. I ribelli appaiono motivati da un’esasperazione cre­scente, esacerbata dalle stragi commesse dagli uo­mini del colonnello e, almeno finora, ancora gal­vanizzati dal successo apparentemente arriso alle rivoluzioni tunisina ed egiziana. Ma temono, sen­za un aiuto esterno, di venire inevitabilmente schiacciati. Nel frattempo, si torna a parlare di no– fly zone o di altri non meglio identificati interven­ti militari (lo ha fatto il Segretario generale della Na­to Rasmussen), mentre Obama spera che prima o poi i sauditi si convincano ad armare i ribelli. Il problema è che, senza una risoluzione del Con­siglio di Sicurezza dell’Onu che lo autorizzi, qua­lunque ipotesi di intervento militare (compresa la no–fly zone) ci farebbe ripiombare in una situazio­ne simile a quella che si determinò in occasione della guerra in Kosovo. Non perché oggi ci sia un po­polo che chiede l’indipendenza da un governo ti­rannico e straniero come avvenne in Kosovo, né tanto meno perché nessuno intenda trasformare la Libia in un protettorato della Ue. Ma perché si ri­produrrebbe, come allora, la spaccatura della co­munità internazionale, con un fronte occidentale contrapposto a Cina e Russia, molti Paesi arabi e a­fricani e sicuramente altrettanti dell’America lati­na e dell’Asia. Era una situazione già difficile nel corso degli anni 90, quando gli Stati Uniti sembravano destinati a re­stare a lungo la superpotenza solitaria, senza nes­suno che apparisse desideroso e capace di sfidarli, e la Nato era il braccio politico–militare dell’Occi­dente vittorioso. Sarebbe una prospettiva insoste­nibile oggi, con l’influenza Usa in drammatico ca­lo, tanto più dopo la guerra in Iraq e nel perdurare del conflitto afghano. Anche la possibilità di sigillare dal cielo quei confi­ni meridionali da cui provengono armi e mercena­ri per Gheddafi appare di improbabile realizzazio­ne. Le ricorrenti stragi di “vittime collaterali” cau­sate in Afghanistan ci dovrebbero ricordare come sia concretamente difficile distinguere un convoglio di mercenari da una carovana di profughi. In quan­to alla prospettiva di armare, i ribelli evitando così un intervento diretto, anche qui la lezione afghana dovrebbe invitare alla prudenza. Le armi, una vol­ta consegnate, cominciano una vita propria, e nel­l’attuale situazione di caos e incertezza non è per nulla detto che non finiscano nelle mani sbagliate. Oltre tutto, a giudicare dalle confuse notizie che giungono d’oltremare, i ribelli si starebbero raffor­zando sul piano militare attingendo ai depositi del regime e pur senza aviazione e privi di mezzi co­razzati stanno comunque tenendo testa alle trup­pe lealiste. Non è dunque di armi che hanno prin­cipalmente bisogno, ma di sostegno politico e di­plomatico: occidentale, certo, ma ancor di più di Lega araba e Unione africana, finora piuttosto si­lenziose. Che qualcuno in Libia invochi l’intervento arma­to occidentale è più che possibile, ma prima di fa­re qualunque passo occorre forse ricordare che troppe volte, dopo, si è scoperto che queste voci erano poche, isolate e di scarsa rappresentanza. Mentre l’azione occidentale potrebbe polarizzare contro di noi il quadro politico libico e regionale, a partire da quegli attori che chiedono che il de­stino della Libia sia lasciato nelle mani dei libici, costi quel che costi.
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