giovedì 1 agosto 2019
Una certa visione della nostra nazione e del mondo appare irrealistica eppure oggi prevale
Perché il "salvinismo" è vecchio e parla al passato e del passato
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Sui navigli a Milano, nel brusio giovanile della Darsena e della movida estiva. Al tavolino di una birreria frequentata da studenti guardo le facce, ascolto le battute, sono incuriosito da questa versione milanese dell’estate e del tempo degli esami. La cosa che più mi impressiona è che nello stesso tavolo ci siano studenti con un’aria decisamente straniera, orientale o africana. Eppure, visto che sono talmente vicino da potere distinguere le voci scopro che gli 'stranieri' sono in realtà milanesi, che parlano con un accento spiccato e non hanno il più vago gesto che li distingua dai loro coetanei. Avevo osservato la stessa cosa nei tram in questi giorni. Ragazzi e ragazze eritree, filippine, singhalesi, ma in realtà no, sono milanesi di seconda o terza generazione assimilate ai costumi, ai modi di fare, ai gusti, alla vivacità di questa nuova ondata di giovani che invadono la sera la città. A me come antropologo, ma a me soprattutto come conoscitore di altre città, New York, Parigi, Amsterdam, Bombay, Maputo la cosa rincuora: significa che questo nostro Paese bello e infelice sta crescendo, è nonostante tutto un posto non infognato nella provincia più marginale del mondo.

Ci sono nuove generazioni di italiani che hanno tratti, pelle, occhi, diversi da quelli a cui siamo abituati, ma sono italiani a tutti gli effetti, è bello vedere una ragazza asiatica che ci si aspetta di non capire nel suo idioma, esprimersi in un italiano 'lingua madre'. Perché è bello? Perché ci fa capire che l’italiano e l’essere italiani ha un valore di universalità, è una maniera di essere al mondo che riesce a rielaborarsi, a riprodursi, a vivere. Il contrario di quello che si pensa quando si parla di pericolo dello straniero e di nostra povertà demografica. A fronte dei problemi dell’integrazione c’è l’altro piatto della bilancia. L’Italia, l’italiano, la nostra maniera di essere è talmente ricca da potere essere assunta e rielaborata e rilanciata dalle future generazioni 'che ci saranno' perché il processo di assimilazione prende una o due generazioni e poi dà luogo a 'italiani'. Dico cose ovvie e banali, mi meraviglio di cose banali, ma è un periodo in cui un certo ritorno all’evidenza e all’osservazione del presente è necessario proprio perché nessuno si guarda intorno. Si chiama antropologia, ma si chiama anche buonsenso.

Allora nella città più cosmopolita d’Italia, dove il numero degli studenti cinesi sfiora un terzo di quelli italiani e le nostre accademie possono non chiudere perché si fanno ricche delle rette pagate dagli asiatici, comincio a pensa- re che l’Italia è diversa dall’Italia ritratta nei giornali, nelle tv, negli exit poll e compagnia bella. Il pensiero successivo è però: perché invece vince una visione che vorrebbe l’Italia chiusa e da difendere dall’esterno? La visione salviniana del mondo, assunta come propria da chi lo vota o lo voterebbe, cattolico o meno, è irrealistica, questo mi viene da pensare. Cioè non ha a che fare con quanto sta in effetti accadendo. È una visione arretrata di venti, trent’anni, non ha a che fare con l’evoluzione stessa del nostro Paese. Lo sa perfino l’imprenditore leghista che non può permettersi di chiudersi al mondo, sia per commerciare che per avere lavoratori nella sua azienda. Salvini è un vecchio da questo punto di vista, qualcuno che si comporta con la stessa incapacità di vedere il mondo dell’ultimo e più disinformato di noi.

È una vecchia malattia senile, è il tentativo costante della Italietta di restare indietro, di perdere il treno, tutti i treni, per potersi lamentare. Che questa sia anche una parte di certa mentalità cattolica non c’è dubbio. L’idea che la fede sia in pericolo perché non è capace di affrontare il mondo. È un vecchio errore teologico e pastorale, la contrapposizione Chiesa/Mondo che ha fatto più danni di qualunque altro atteggiamento. Oggi in Africa c’è un mondo cattolico in crisi, proprio come in America Latina, proprio perché ha preso le parti del 'passato'. Alle folle povere africane questa Chiesa raccontava che Dio le amava proprio perché erano povere. Per cui quando sono arrivate le sette evangeliche che invitavano i fedeli a cercare di arricchirsi ovviamente hanno vinto. Non c’è un valore nel vivere male, nell’essere poveri, nell’essere emarginati. È sicuramente importante stare dalla parte dei poveri, ma proprio perché smettano di esserlo. Questo miserabilismo è anche un classico del catto-comunismo e come tale è straperdente.

Qui non c’è una questione di buonismo o meno, c’è una pecca fondamentale: il benessere, il piacere di vivere, la vita sviluppata nelle sue potenzialità sono valori cristiani e universali, ce lo ha insegnato Amartya Sen. L’altro grande problema di quel mondo cattolico che vota Salvini è avere creduto in un tipo di 'fraternità' comunitario e tendenzialmente confessionale. Fratelli sì, ma con i simili a te, con i tuoi conterranei, anzi peggio, con i tuoi 'confratelli'. La Chiesa perde così la funzione universale e assume le chiavi malate del nazionalismo francese o del nazionalismo tout-court. La fraternité della trilogia della rivoluzione francese è diventata nella riflessione di Michelet una forma settaria della egalité. C’è una malattia tipica di un certo spirito religioso che mutila l’afflato universalista delle religioni stesse. Che sia la 'chiesa come comunità', la 'Umma' islamica, o la 'Sangha' buddista, il problema è lo stesso. Siamo fratelli solo con quelli che hanno la nostra stessa fede. È proprio l’opposto del messaggio paolino, dell’idea di umanità che ha distinto il cristianesimo da altre fedi. Oggi ce ne sarebbe un bisogno estremo e proprio oggi manca un messaggio forte e chiaro sull’Universalismo.

Ovviamente papa Francesco lo sa e lo fa, ma sarebbe interessante proprio il distinguo. La fraternità non si ispira all’idea di partecipare alla stessa famiglia. Il cristianesimo va più in là. «Non vi ho chiamato servi ma amici», significa che il legame di amicizia che tiene insieme gli umani è preferito da Cristo a qualunque altro legame 'dato': famiglia, tribù, clan, etnia, nazione, maschio o femmina e appartenenza religiosa. Oggi nel mondo il discorso universalista è screditato dalla globalizzazione che ne è la sua versione diabolica. Eppure nella stessa globalizzazione c’è più speranza che nei localismi e nei nazionalismi. Il punto è riscattare la globalizzazione e riportare l’accento sull’universalismo. La Chiesa è una delle poche presenze al mondo che lo può fare, ricusando qualunque tentazione di 'comunitarismo' e 'comunalismo'. Altrimenti passerà la versione spaventata, nostalgica, vecchia, provinciale del 'noi', una versione a cui in fondo nemmeno Salvini crede, perché va contro il suo non essere ancora vecchio. Il suo messaggio è un invito all’arteriosclerosi di un intero Paese. All’irrigidire qualcosa di vivente che si evolve e che ha scambi costanti con il resto dei mondi. D’altro canto tutti i nazionalismi o i fascismi o i nazismi non hanno bisogno di capi che ci credano, ma di furbetti che costringano gli altri a restare indietro rispetto al mondo.

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