martedì 13 settembre 2016
 Perché il «noi europeo» finisce sulle portaerei
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Guido Westerwelle, ministro degli Esteri tedesco dal 2009 al 2013, è prematuramente scomparso lo scorso 18 marzo. Interpellato sulle prospettive future dell’Europa al World Economic Forum di Davos del 2013 in un discorso lucido e brillante ha portato l’attenzione sulla necessità di realizzare che l’Europa «non è più al centro del mondo». All’interno di questo contesto, la posizione di Westerwelle prende le mosse da un assunto di base forte: l’Europa manca di materie prime e di energia che può sfruttare nel confronto globale e da sola l’India ha tre volte la popolazione di tutte le nazioni europee insieme. Pertanto, sempre secondo il ragionamento di Westerwelle, è necessario che ognuno ogni giorno in ogni Paese nell’Unione Europea si impegni per accrescere la propria competitività altrimenti «noi non sopravvivremo con il nostro stile di vita e perderemo la capacità di proteggere i nostri valori e la nostra libertà qui in Europa». La ricetta che Westerwelle propone è data da tre ingredienti: disciplina fiscale (e progressiva riduzione del debito) per evitare la dipendenza dal sistema finanziario, solidarietà tra tutti i Paesi europei, crescita ottenuta tramite il rafforzamento della competitività e le riforme strutturali. Attraverso il rafforzamento prioritariamente del sistema educativo, formativo e della ricerca da un lato e gli investimenti sulle tecnologie energetiche dall’altro si potrà mantenere la competitività europea nello scenario internazionale.  Il messaggio di Westerwelle teneva dunque insieme fine e mezzi: ma soprattutto non aveva timore di esprimere una volontà di affermazione del 'noi europei' rispetto al 'loro, non europei' in una consapevole valutazione di interesse e al contempo individuando nel controllo della capacità tecnologica per la produzione di risorse energetiche le armi su cui giocare la competizione internazionale. Riascoltare quel discorso in questi giorni fa un certo effetto. Viene da chiedersi se i fallimenti della politica estera europea sulle vicende nord africane e Medio Orientali così come le continue discussioni sulle tecnicalità finanziarie dell’euro non siano la causa ma l’esito di un difetto originario. Il difetto originario.  L’Europa unita nasceva per evitare che una nuova guerra potesse aver luogo tra le nazioni europee, in un mondo che era stato sino ad allora sostanzialmente Europacentrico e poi, nei decenni successivi, cristallizzato nei due blocchi: occidentale e sovietico. Negli anni della sua costruzione, memore delle guerre in casa propria e in un mondo ancora geograficamente ed economicamente ordinato, l’Europa si è negata intellettualmente e nella sua retorica la possibilità di definirsi per contrapposizione con ciò che l’Europa non era. Proseguendo su questa strada l’Unione si è inevitabilmente trovata impreparata a confrontarsi con il mondo post 1989-90, priva di una cornice di senso e di consenso per agire nel contesto internazionale globale.  Passi significativi da allora, nonostante un contesto globale resosi sempre più fluido, non ne sono stati fatti. La debolezza e ambiguità nei confronti internazionali l’ha resa non solo facile preda al suo interno di bassi e scomposti pensieri autoritari, ma anche, come nel caso della Gran Bretagna, oggetto di messa in discussione formale circa la sua efficacia quale strumento per perseguire gli interessi nazionali nello scenario globale. Non si può volere la botte piena e la moglie ubriaca. E non si può pensare di creare un interesse europeo aggregante in assenza di una concettualizzazione di cosa sia il «noi europeo» anche, se serve, in giustapposizione a cosa Europa non è. Gli obiettivi illuminati vanno bene ma come sempre accade in politica richiedono di sapersi confrontare anche con ciò che sta nell’ombra. Chi ha fatto in questi anni il lavoro sporco di parlare alla pancia degli europei da una prospettiva europea? Nessuno. L’Europa ha continuato a presentarsi ai suoi cittadini come quella che doveva portare al mercato unico del 1992: magnifiche sorti e progressive, un inno alla gioia per un mondo fatto di città della cultura. È inevitabile che se le istituzioni europee – da questo punto di vista un gigante dai piedi di argilla – tacciono, finiscano per riemergere narrazioni nazionaliste, peraltro velleitarie. In questo momento l’Europa ha paura dei suoi cittadini. È dunque utopistico pensare che un aiuto all’Unione Europea possa arrivare adesso dalle regole di interazione interna, siano esse fiscali, finanziarie o sociali. Per quanto fastidioso possa suonare, l’Europa e le sue istituzioni devono raccontarsi, prima che il loro consenso salti del tutto per aria, un po’ meno illuminate e molto più interessate alla difesa delle nazioni europee. Ecco perché, di colpo, siamo passati dall’Inno alla gioia ai meeting dei leader della Ue sulle portaerei.
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