Distanziamento fisico: perché dire e fare così
venerdì 4 dicembre 2020

Caro direttore,
la riattivazione delle zone rosse (e l’invenzione di quelle arancioni e gialle) per rallentare il contagio di questa pandemia ci chiede di riportare l’attenzione sulle misure più stringenti di protezione e distanziamento, in modo da impedire che il virus si trasferisca da una persona all’altra.

Su queste colonne, già dai tempi della quarantena totale di primavera, si è scelto di usare più opportunamente l’espressione «distanziamento fisico» indicando la contemporanea urgenza di una maggiore prossimità sociale, culturale e spirituale. L’attenzione alle parole, alla sua pertinenza e correttezza nel descrivere gli eventi è lo stile che caratterizza questo quotidiano e sappiamo quanto ancora abbiamo bisogno di un giornalismo che sappia rispettare in primis la persona umana. Nei mesi successivi ai 70 giorni di confinamento anche alcune importanti istituzioni hanno fatto questa scelta di fondo.

L’Organizzazione mondiale della sanità in particolare raccomanda di «usare la forma distanziamento fisico invece di sociale» in quanto abbiamo anche il bisogno di rimanere in forte relazione con gli altri. «Non dobbiamo socialmente disconnetterci dai nostri cari e familiari – ha affermato in conferenza stampa l’epidemiologa dell’Oms Maria Van Kerkhove – e la tecnologia in questo momento è avanzata così tanto che possiamo restare connessi in molti modi senza essere fisicamente nella stessa stanza o essere fisicamente nello stesso spazio».

Anche in conseguenza di queste raccomandazioni in varie parti del mondo si sta correggendo l’iniziale errore comunicativo e si trovano esempi autorevoli nei nuovi manifesti di sensibilizzazione dell’Oms per esempio della regione del Pacifico dell’ovest dove nella brochure 'Guida pratica al distanziamento fisico' si invita a questi comportamenti: «Diventa un eroe e spezza la catena di trasmissione di Covid-19 praticando la distanza fisica».

Altre realtà italiane come il mondo del commercio equo e solidale, l’ambito delle professioni socio educative, alcuni organismi ufficiali di promozione della salute, alcuni giornalisti, l’Unicef, le Acli, gli scout e le guide dell’Agesci, molte aree del Terzo settore si sono già espresse usando la forma «distanziamento fisico», chiedendo così di abolire l’uso ambiguo e fuorviante del termine «sociale» dalla giusta pratica di protezione dal virus. Purtroppo, però, ancora non basta. Ascoltiamo tutti i giorni notizie e approfondimenti che riportano disposizioni e raccomandazioni di autorevoli leader istituzionali che – a quanto pare – non si sono accorti di essere protagonisti di una stonatura che non è solo un problema di correttezza lessicale. «Infodemia» è il termine usato dall’Oms per indicare quell’«abbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno».

È il bersagliamento mediatico, condito da numerose notizie false sul virus, sulla pericolosità e rimedi, che impatta sulla depressione, ansia, paura, rabbia. Evidentemente le persone con meno capacità critica si trovano disorientate. Non si tratta dunque di fare il contropelo linguistico, ma di evitare di collegare il termine 'sociale' a un concetto negativo; non dobbiamo dimenticare che chi ne fa le spese maggiormente sono le persone più vulnerabili mentalmente e socialmente, in quanto meno capaci di interpretare questi messaggi contraddittori. L’istituto Mario Negri ha studiato l’impatto psicologico della quarantena – con il Peritraumatic Distress Index – ed è emerso che l’intensità di distress da isolamento (o stress negativo che causa problemi psicologici e fisici) è maggiore in caso di persone con basso livello di istruzione, con problemi di salute, disoccupati, abitanti in case con meno di 2 camere.

I dati di questo sondaggio ci dicono che il disagio psicologico più diffuso (9,9%) è rappresentato da sintomi piuttosto importanti, come la depressione; la maggioranza degli intervistati invece soffre di cattivo umore e apatia. Inoltre ansia, sensazione di pericolo e preoccupazione, appartengono al 5,6% della popolazione; il 4% ha ammesso di soffrire di disturbi fisici. La percentuale di persone influenzate negativamente da questa situazione diventa maggiore quando all’ansia si aggiungono sintomi somatici e depressivi. Sono innumerevoli gli studi in vari campi del sapere che confermano l’influenza positiva delle relazioni interpersonali nella cura delle patologie. Sappiamo inoltre che l’«inclusione sociale» è diventata – da almeno un trentennio – uno degli obiettivi da perseguire nel campo dell’istruzione scolastica e della formazione professionale delle persone disabili. Si realizza dunque ogni giorno un diffuso e silenzioso tentativo di «farsi prossimo» auspicato dal cardinal Martini, trentatré anni fa, con la sua lettera pastorale sulla carità-amore ispirata dalla parabola del Samaritano.

Chiediamo di cambiare il vocabolario della politica e dell’informazione, perché è urgente dare voce allo sconcerto di milioni di persone fragili, a cinque milioni di volontari impegnati quotidianamente per il bene comune, a centinaia di migliaia di insegnanti e di professionisti socio sanitari ed educativi. In Italia abbiamo un mondo solidale, quasi sempre sommerso, ma che durante la pandemia non ha mai smesso di operare con prossimità e a credere che il sociale è parte integrante della nostra salute e va protetto. Anche con il giusto uso delle parole.

Docente e ricercatore in educazione professionale sociosanitaria Università di Trento

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