giovedì 7 gennaio 2010
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L’immigrazione è una delle sfi­de più brucianti con cui si mi­sura l’Europa, sempre più at­tanagliata dalle paure e sempre meno in grado di elaborare modelli capaci di costruire e organizzare convivenza. C’è chi dice che sia essenzialmente un problema di numeri: l’arrivo di una quota eccessiva di stranieri, unita alla loro maggiore prolificità rispetto agli standard occidentali, rendereb­be ingovernabile la situazione. C’è chi denuncia un problema di compatibilità culturale di alcune compo­nenti sostenendo ad esempio, come ha fatto recente­mente il politologo Giovanni Sartori, che le comunità musulmane sarebbero per definizione ' non integrabi­li'. Sta di fatto che i modelli elaborati nei diversi Paesi per gestire la convivenza con i ' nuovi arrivati' – che col passare del tempo sono sempre meno ' nuovi' e sempre più stanziali – mostrano la corda. Lo dimostra­no le difficoltà crescenti con cui si misurano la Gran Bretagna e l’Olanda, dove è in crisi il multiculturali­smo fondato sull’illusione di far convivere comunità etniche o religiose sulla base delle rispettive regole e u­sanze, a scapito di valori condivisi. Coltivando l’utopia che ' diverso è bello', si è consentita la nascita di pezzi di società parallele e autoreferenziali ( come testimonia il reportage che pubblichiamo a pagina 3) caratterizza­ti da legami forti al loro interno ma fragili con ciò che sta fuori dalla comunità di appartenenza. Il multicul­turalismo, al fondo, è figlio del relativismo culturale e giuridico, cioè del tentativo di dare legittimazione a o­gni diversità che caratterizza le minoranze. Anche la Francia fa i conti con i limiti del suo modello di inte­grazione, ispirato all’universalismo e alla laïcité : da un lato le promesse di liberté- égalité- fraternité, figlie degli ideali repubblicani, si sono infrante contro una dura realtà fatta di insuccessi scolastici, disoccupazione ed emarginazione che ha colpito le seconde e terze gene­razioni degli immigrati; dall’altro la tendenza a relega­re nell’ambito privato l’esperienza religiosa ( il contra­rio, cioè, di quella ' laicità positiva' che Sarkozy sta fa­ticosamente cercando di promuovere) si è scontrata con l’onda lunga del fondamentalismo islamico. E in Italia, che fare? Quale strada intraprendere, facen­do tesoro per quanto possibile della crisi dei modelli adottati negli altri Paesi europei? Siamo in una situa­zione molto peculiare: quasi 5 milioni di stranieri pro­venienti da più di 150 Paesi, raddoppiati negli ultimi 5 anni e con ingressi prossimi al mezzo milione all’anno nell’ultimo triennio, di tradizione cristiana per il 60%, musulmani per il 35%, molto più giovani della media i­taliana, 700mila sono compagni di banco dei nostri fi­gli. Questo universo umano molto differenziato – che molti continuano a descrivere e a concepire invece co­me una massa indistinta e uniforme – vive in un Paese caratterizzato da una storia millenaria, spesso maltrat­tata dai suoi stessi eredi, che non è in alcun modo pa­ragonabile a un libro con le pagine bianche dove tutto può essere azzerato in nome del rispetto di sopravve­nute diversità. La nostra è terra ricca di tradizioni, le­gami, modi di concepire il lavoro, la famiglia, la convi­venza. Tutto questo l’ha segnata in profondità. Tutto questo è l’Italia. Ed è questa l’Italia – lo ricordiamo mentre è ancora fresca l’eco della ' festa dei popoli' celebrata ieri in molte diocesi – che deve conoscere chi vuole metterci radici: imparandone la lingua, rispet­tandone le leggi, condividendo ciò che ne sta a fonda­mento, in un percorso che non è frutto di una formula ma comporta la fatica dell’integrazione. C’è un’iden­tità italiana che nei secoli – non senza difficoltà – si è dimostrata capace di incontrare e accogliere la diver­sità, esigendo rispetto per il proprio patrimonio cultu­rale e giuridico e manifestandone per quanti incontra­va. Ogni vera identità non è mai autoreferenziale, ma consapevole che un ' io' autentico si costruisce solo nel rapporto con un ' tu', per poter arrivare a dire ' noi' in maniera non equivoca. E costruire così quella ' identità arricchita' che può rappresentare il modello italiano di convivenza, al quale tutti sono chiamati a portare il loro contributo, nella misura delle responsa­bilità di ciascuno: istituzioni, società civile, comunità straniere, singoli cittadini. Per fare in modo che la dif­fidenza e l’estraneità non diventino le lenti deformanti con cui guardiamo coloro che in molti casi sono di­ventati i nostri nuovi vicini di casa.
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