Il delitto del Suv: quei verdetti a prova di diffidenza
sabato 3 febbraio 2024

Era l’inizio della scorsa estate. Un suv, lanciato in una folle gimkana a oltre 120 all’ora, va a schiantarsi contro un’auto di piccola cilindrata, uccidendo un bambino di cinque anni. Uno dei tanti – purtroppo – casi di omicidio stradale? Sì, ma caso-limite, se si pensa al tipo e al livello di irresponsabilità del comportamento che in un gioco di futile, esasperato esibizionismo ha generato un epilogo tanto tragico.

Stavolta una sentenza è arrivata abbastanza celermente. Senza passare, peraltro, da un vero e proprio processo in contraddittorio. In questi giorni, su concorde richiesta di accusa e difesa, il giudice dell’udienza preliminare ha infatti fissato, a carico del colpevole, una pena reclusiva: quattro anni e quattro mesi.

Vi è però la certezza che di fatto l’imputato non entrerà neppure per un giorno in un penitenziario, giacché proprio l’entità di quella pena, pur di per sé non lieve, gli ha aperto la strada per un accesso alla misura non detentiva dell’affidamento ai servizi sociali, essendosi anche tenuto conto del tempo da lui trascorso in via cautelare agli arresti domiciliari.

In punto di diritto l’esito non è fuori dalle regole. Né lo sono, specificamente, l’incidenza esplicata per produrlo dalla concessione delle cosiddette attenuanti generiche nonché, a supporto essenziale di tutta l’operazione, dal “patteggiamento” intervenuto tra l’accusa e la difesa e avallato dal giudice.

Ma è altrettanto vero che nulla di tutto ciò era automaticamente imposto dalla legge (in particolare, l’assenso del giudice alla concorde richiesta delle parti processuali è pur condizionato, tra l’altro, da una valutazione positiva di “congruità” della sanzione): donde non pochi commenti critici, vibrati e addirittura indignati, che si possono comprendere benché sia innegabile l’accentuata problematicità delle difficili scelte che qui incombevano sui magistrati.

È però lo stesso istituto dell’affidamento ai servizi sociali in quanto tale, che dall’applicazione in un caso del genere rischia di trovarsi – e in realtà è venuto a trovarsi – sottoposto a critiche. La sua previsione e i progressivi incentivi legislativi al suo incremento riflettono indubbiamente un obiettivo sacrosanto: quello di contribuire ad attuare e portare avanti ciò che l’articolo 27 della Costituzione definisce “rieducazione del condannato”.

Ma nella popolazione, anche tra persone lontane da una concezione vendicativa della giustizia penale, permane una diffusa diffidenza: si pensa che in molti casi questa e altre alternative alla pena carceraria possano non riflettere a sufficienza la proporzione con il reato.

E la diffidenza esplode in scandalo ogni qualvolta un caso clamoroso rischia di fare apparire tali misure come maschere di quasi-impunità a fronte di autentiche tragedie. Nella specie le scuse dell’omicida alla famiglia della piccola vittima e la promessa d’impegnarsi in futuro proprio nel campo della sicurezza stradale possono essere premesse, ma nulla più che premesse, per lo sviluppo di un percorso di autentica e onerosa riparazione, cui è in larga parte affidato il compito di testimoniare la serietà di tale impegno.

E tuttavia – si esita a dirlo, ma purtroppo è così – forse neppure ciò può bastare a tacitare quella diffidenza. L’esperienza ha sì dimostrato che in relazione a una vasta area di reati non gravissimi ma nemmeno bagatellari le suddette misure, come tutto quanto rientra in una giustizia “riparativa” alternativa e non solo fiancheggiatrice di quella “carcerocentrica”, sono più efficaci della prigione come antidoti alla recidiva. Eppure è difficile essere del tutto persuasivi, quando esse non riescano già in radice a trasmettere altresì una percepibile stigmatizzazione per il delitto commesso, proporzionata alla sensazione di gravità che questo ha suscitato non solo tra gli intimi della vittima ma nell’intera collettività.

Tra i rischi che si corrono di riflesso, uno è molto palpabile, specialmente di fronte alle immediate dichiarazioni pubbliche di politici da sempre attratti da malcelate simpatie, quando non per una “giustizia” che tiene e mostra i detenuti a guinzaglio e con i ferri a mani e piedi, quantomeno per propositi di vaste traduzioni in pratica dell’“in cella e buttando via la chiave”. Sarebbe molto grave se le perplessità e lo stesso sdegno, che con tutt’altro spirito molti hanno avvertito nei confronti di una sentenza come quella da cui si sono qui prese le mosse, dessero pretesto per dare, nella legislazione penale, l’ennesimo giro di vite indiscriminato o all’opposto, ma con risultati egualmente inaccettabili, selettivo in modo da colpire determinate condotte “scomode”.

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