Per noi «zero tituli» serve un miracolo
giovedì 1 agosto 2019

Siamo a 'zero tituli'. Crescita zero del Prodotto interno lordo nel secondo trimestre di quest’anno; crescita zero pure su base annua; ugualmente pari a zero la variazione acquisita del Pil per il 2019. Restiamo a zero, insomma, anche se non siamo uno zero, perché una parte del Paese, delle imprese e dei suoi lavoratori continuano a produrre crescita, esportazioni, benessere e pure lavoro. Perfino con qualche paradosso, come quello di un tasso di occupazione al 59,2% per noi ai massimi dagli anni 70 del Novecento. Eppure il Paese è inchiodato, impantanato ormai da mesi in una stagnazione di cui è difficile scorgere la via d’uscita.

Qualcuno si accontenta di dire, come Igor in 'Frankestein Junior' che «potrebbe esser peggio, potrebbe piovere», visto che gli ultimi due trimestri dello scorso anno si erano chiusi con una crescita negativa dello 0,1%, in una recessione tecnica. Oppure ci si affretta a gioire per il «record dell’occupazione e il calo della disoccupazione al 9,7%». Ma in realtà c’è poco da festeggiare perché quella del mercato del lavoro è nulla più che una 'tenuta' e dietro i numeri che vengono esposti con troppa enfasi ci sono una serie di indicatori che testimoniano di crescenti difficoltà e di un Paese, appunto, fermo.

Nel mese di giugno, infatti, i posti di lavoro in valore assoluto sono leggermente diminuiti (-6mila) e la crescita annua che resta positiva (+115mila) non ha più il vigore degli anni scorsi quando si viaggiava con incrementi tra i 200 e i 300mila. È la forza lavoro complessiva a calare per ragioni demografiche e gli occupati stabili risultano in percentuali maggiori, ma sempre lontani dagli standard degli altri Paesi Ue, dove il tasso di occupazione è in media superiore al 70% e noi risultiamo penultimi in classifica, davanti alla sola Grecia. Ancora, l’occupazione resta stabile anche se non mancano le situazioni di crisi in moltissime aziende, perché i lavoratori in cassa integrazione sia ordinaria sia straordinaria (re-introdotta sostanzialmente dal governo giallo-verde dopo le limitazioni del Jobs Act) risultano occupati a pieno titolo nelle statistiche dell’Istat.

Così come (e questo valeva pure nelle epoche precedenti) chiunque abbia lavorato almeno un’ora nella settimana precedente alla rilevazione. Proprio questo delle ore lavorate è un altro indicatore significativo: rispetto al 2017 ne mancano all’appello oltre 550 milioni e sono ancora meno di quelle registrate nel 2008 prima della grande crisi, quando il numero assoluto di occupati era di poco inferiore all’attuale. Ergo: oggi più persone lavorano per meno ore, con minori guadagni. E infatti il tasso di part-time involontario – quello cioè non richiesto, ma dovuto al fatto che non si riesce a trovare un’occupazione per più ore durante una giornata o per più giornate in un mese – è in netta crescita: riguarda l’11,9% del totale dei lavoratori, il 64% di quelli a tempo parziale, oltre 1 milione di persone in più rispetto al 2008.

Un solo dato appare consolidato come positivo: aumentano, anche per effetto delle regole del decreto Dignità, i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, mentre calano quelli a termine e gli autonomi fra cui spesso si nascondevano false partite Iva (lo avevamo rilevato anche in questa analisi CLICCA QUI ). Ci sono poi altri dati economici che testimoniano della stagnazione in cui siamo impantanati: l’inflazione a luglio è ferma al +0,1% mensile e +0,5% annuo, in parte per il calo dei prezzi dell’energia, in parte per la frenata dei consumi. Dinamica che fa il paio con gli investimenti privati, la cui crescita è andata scemando nell’ultimo triennio e per il 2019 è prevista addirittura in negativo.

Come la produzione industriale che, al di là degli alti e bassi mensili, è sostanzialmente ferma da oltre un anno. La nostra ricchezza insomma non aumenta, anzi: il Pil pro-capite era 28.100 euro nel 2008, nel 2018 siamo a 26.400 euro. Altro che crescita, siamo ancora al 10% in meno. È vero, «potrebbe esser peggio, potrebbe piovere», ma come nella scena del film-capolavoro di Mel Brooks siamo in una fossa a scavare, mentre gli altri Paesi europei (chi più chi meno) hanno proseguito negli scorsi anni e continuano tuttora a crescere lasciandoci indietro. Più che una manovra-choc, per non restare a 'zero tituli' servirebbe un miracolo. L’Italia qualche volta ha dimostrato che si possono realizzare, ma occorrerebbe un impegno eccezionale – e concorde – di tutti. E il clima non è dei migliori. Anzi, «potrebbe esser peggio, potrebbe piovere».

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