giovedì 13 febbraio 2014
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​La velenosa dichiarazione del Segretario generale Ban Ki Moon, secondo il quale l’illegittima detenzione da parte dell’India dei nostri due fucilieri di Marina è "una questione bilaterale"  che non riguarda l’Onu, è arrivata ieri come una chiosa inattesa e sconcertante alle parole del ministro degli Esteri Emma Bonino, che martedi aveva sostenuto "di aver acquisito le convergenze necessarie per internazionalizzare il caso". La presa di distanza delle Nazioni Unite non toglie nulla alla rilevanza delle prime esplicite attestazioni pubbliche di solidarietà giunte dall’Unione Europea e dalla Nato. Ma certamente definisce il contorno del sostegno internazionale che l’Italia può attendersi e, per inferenza, il raggio d’efficacia della nostra azione diplomatica. Che si arresta a quello della cerchia delle alleanze politico-militari di cui l’Italia è parte.Si tratta di un risultato piuttosto modesto, occorre dirlo, tanto più perché raggiunto con estremo ritardo, dopo che per quasi due anni la strada dell’azione paziente e conciliante era riuscita a produrre solo informali, contraddittorie e fragili "garanzie" sulla non applicabilità della pena di morte nel processo a carico dei due marò. Ma soprattutto è un esito particolarmente insidioso, perché consentirà all’India di presentare la solidarietà internazionale ottenuta dall’Italia come una manifestazione dell’«arroganza occidentale».La strategia di internazionalizzazione del caso è stata annunciata solo a seguito della decisione indiana di incriminare i nostri militari per terrorismo. Stando alle assicurazioni fornite dai due esecutivi che si sono occupati della questione - il governo Monti e il governo Letta - si potrebbe immaginare che «l’acquisizione delle convergenze necessarie», seppur nella massima discrezione, sia stata iniziata prima di questa settimana. E, in ogni caso, ciò che ci saremmo legittimamente aspettati è che l’annuncio di voler ricorrere agli organismi giurisdizionali dell’Onu fosse stata dato dopo che la Segreteria generale avesse fornito un informale, ma sostanziale, via libera. Cosa che evidentemente non è successa. L’impressione che si ricava è, perciò, che la scelta di internazionalizzare il caso sia stata presa repentinamente, di fronte alla imprevista decisione delle autorità indiane di trattare come terroristi i nostri marò. In questi due anni, del resto, più di una volta, abbiamo avuto la sensazione che le nostre autorità governative si siano fatte cogliere  impreparate, reagendo in maniera non appropriata, come quando il premier Monti intervenne per riconsegnare i nostri ostaggi ai loro sequestratori, dopo che il suo ministro degli Esteri aveva pubblicamente garantito il contrario.Evidentemente l’India si deve essere mossa più efficacemente di noi nell’azione di lobbing presso l’Onu, o ha trovato orecchie più attente alle sue ragioni. D’altronde, se è vero che l’Italia è uno dei più generosi contributori delle operazioni di pace dell’Onu, è altrettanto vero che l’India è stata per anni (e resta) uno dei principali candidati alla posizione di membro permanente senza diritto di veto nel progetto di riforma del Consiglio di Sicurezza. Una posizione ottenuta attraverso la costruzione di una rete di sostegno che tuttora è in piedi e funzionante. Non vorremmo che, dopo aver sottovalutato la protervia di Delhi, se ne sia mal calcolata anche la potenza diplomatica. Ora in Parlamento circola la minaccia di ritirare il contingente italiano da Unifil 2 (missione di cui abbiamo il comando), ma si tratta di un puro esercizio di autolesionismo. Andarsene sbattendo la porta è sempre l’ammissione di un fallimento. Inoltre, la costante partecipazione italiana dei militari italiani alle missioni di pace ha svolto e continua a svolgere, assieme alla diffusa azione disarmata di tanti e tanti operatori umanitari, un ruolo cruciale per puntellare il ranking internazionale del Paese. Essa non può però rovesciare da sola l’immagine di fragilità istituzionale che l’Italia ha alimentato in questi anni, della rissosità di una classe politica troppe volte riuscita nell’impresa di disperdere un autentico capitale di credibilità nazionale.
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