Gentile direttore,
nella lettera dal titolo "Paritarie, sospetto e ingiustizia", pubblicata domenica 6 maggio sul quotidiano da lei diretto, si fa riferimento all’obbligo per le scuole private di segnalare all’Agenzia delle Entrate il pagamento delle rette superiori a 3.600 euro. Si tratta di un obbligo di legge. E le informazioni raccolte, come nel caso dell’iscrizione dei figli alle scuole private, non rappresentano in alcun modo indici di ricchezza o di lusso, bensì voci di spesa per ricostruire il reddito speso dai cittadini e verificare se in linea con il reddito dichiarato. I costi sostenuti per l’istruzione nelle scuole private sono soltanto una di queste 100 voci necessarie a "fotografare" complessivamente la capacità di spesa della famiglia e incidono marginalmente rispetto ad altre, sicuramente definibili di "lusso", che denotano una notevole disponibilità economica. I controlli dell’Agenzia delle Entrate scattano solo lì dove tra reddito speso e reddito dichiarato esiste una forte incongruenza che per legge deve essere almeno superiore al 20%. In ogni caso, il cittadino potrà dimostrare, in fase di contraddittorio con l’Agenzia, che quelle spese sono finanziate non con il reddito ma con altri mezzi quali ad esempio eredità, donazioni o risparmi.
Ufficio Stampa
Agenzia delle Entrate
Questa lettera dei gentili colleghi dell’Ufficio Stampa delle Entrate mi è arrivata a corredo di una richiesta «precisazione», anche se in realtà dice una serie di cose delle quali i lettori di Avvenire sono già informati e, soprattutto, che non smentiscono in alcun modo – del resto non si può smentire la realtà – che le spese d’istruzione sostenute dalle famiglie italiane in istituti non statali paritari (cioè integranti il sistema pubblico di istruzione) o privati tout court sono tra le 100 prescelte per tenere sotto controllo possibili o presunti evasori fiscali. La «precisazione» conferma, dunque, quello che abbiamo sempre scritto, che il lettore Brizio era tornato a segnalare e che io in questo stesso spazio ho commentato con amarezza.
Ma le «precisazioni» sono sempre utili, anche quando non precisano alcunché. (Perché non può certo esser considerata tale la sottolineatura che tutto quanto viene attuato sul fronte del fisco avviene in forza di norme di legge: figuriamoci, è ovvio! Guai, se non fosse così...). La lettera dei colleghi dell’Ufficio Stampa dell’Agenzia delle Entrate fa infatti emergere con più chiarezza un aspetto eloquente del clamoroso paradosso di cui ragionavamo domenica scorsa: il cittadino-contribuente “ricco” e “congruente” – cioè con un reddito adeguato alle spese che compie – non avrà alcun controllo, il cittadino-contribuente “povero” e che fa i salti mortali (e magari viene aiutato economicamente dai nonni) per educare i figli come ritiene giusto e commissaria per questo il bilancio familiare può invece essere costretto a giustificarsi con lo Stato. In sostanza, questo ipotetico – ma non troppo – contribuente “non ricco” e “non evasore”: paga, come tutti, le tasse per garantire l’istruzione pubblica (che è statale e paritaria non statale); riceve indietro, in modo indiretto, briciole di contributo per la scuola paritaria (che è istituita senza oneri per lo Stato, senza cioè che lo Stato sborsi nulla per realizzarla, da soggetti privati, da enti cooperativi, da istituzioni religiose o civili e che, oggi, nel complesso riceve per il riconosciuto e controllato servizio pubblico che svolge circa 500 milioni di euro l’anno a fronte di una “valore istruzione” di circa 6 miliardi che lo Stato così evita, sempre annualmente, di spendere); deve tenersi pronto a spiegare «in sede di contraddittorio» ai giudici tributari un’eventuale «incongruenza» reddituale se il sacrificio che fa da genitore è troppo grosso per sembrare vero... Perfetto, no?
Per concludere: il contrasto all’evasione, come su Avvenire è stato scritto decine di volte anche da me, è sacrosanto. E penso che gli evasori vadano scovati e indotti a cambiare registro. Ma inserire tra i 100 indicatori “sospetti” le spese per educare i propri figli è, a mio parere, concettualmente sbagliato e ingiusto. In coscienza, la coscienza di chi sa che non si possono cercare alibi per giustificare il rifiuto di «dare a Cesare quel che è di Cesare» e che serve a tutti, ne sono più convinto che mai. So anche benissimo che il problema lo devono risolvere quelli che fanno le leggi e dettano le norme, non certo i funzionari del fisco. E infatti, ieri, il direttore l’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, lo ha ricordato rivolgendosi direttamente al Parlamento. A coloro che si battono sul campo contro l’evasione spetta – e immagino quanto a volte possa essere duro in questo tempo di crisi – di applicare le regole con fedeltà, misura e senso rigoroso e buono dell’autentico interesse pubblico.
Marco Tarquinio