mercoledì 26 giugno 2019
Lo strumento della detenzione di massima sicurezza per rendere più efficace la lotta ai narcotrafficanti internazionali anche in Sudamerica
Incontro in Italia dei responsabili delle amministrazioni penitenziarie di Spagna, Portogallo, Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. Poi una piattaforma di lavoro comune per contrastare le attività criminali nelle prigioni

Incontro in Italia dei responsabili delle amministrazioni penitenziarie di Spagna, Portogallo, Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. Poi una piattaforma di lavoro comune per contrastare le attività criminali nelle prigioni

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Lo scambio di informazioni ed esperienze per contrastare il crimine transnazionale La clamorosa evasione del boss ’ndranghetista Rocco Morabito dal carcere di Montevideo, attraverso il tetto dell’infermeria, ha riacceso i riflettori sulla carenza di misure di sicurezza per i detenuti di maggior spessore criminale nei penitenziari dell’America latina. Come avviene in questi casi, c’è chi punta il dito sulla mancata cooperazione giudiziaria, chi sulle strutture 'colabrodo' e chi invece sulla malapianta della corruzione. Pochi sanno però che, col problema, i governi di diversi Paesi latinonamericani hanno già iniziato a confrontarsi. E lo hanno fatto ragionando sull’adozione di un modello di detenzione di massima sicurezza, quello definito dall’articolo 41 bis, inventato proprio in Italia. I l loro assunto è che tenere i boss in sezioni separate, controllati a vista e con precauzioni più elevate, possa non solo ridurre il rischio di evasione (anche se non del tutto, come provano le due clamorose fughe, nel 2001 e nel 2015, del narcoboss Joaquín ChapoGuzmán da altrettante supercarceri messicane), ma serva anche a limitare contatti con altri criminali reclusi e con l’esterno, evitando che i penitenziari si trasformino in 'succursali' dei traffici e luogo di scontro fra bande. Oggi, putroppo, questo avviene in diversi penitenziari latinoamericani, dove i narcocartelli, le bande o le maras agiscono quasi come a casa propria. Tanto che, quando operano in concorrenza, divampano guerre sanguinose. Le ultime due stragi, in Paraguay e in Brasile, risalgono ai giorni scorsi: a metà giugno, nel carcere di San Pedro, a 400 chilometri dalla capitale paraguaiana Asunción, sono rimasti sul terreno 10 cadaveri, in parte legati al gruppo brasiliano Primeiro Comando da Capital. Lo stesso cartello che, a fine maggio, era stato protagonista di violenze in quattro carceri della città amazzonica di Manaus, in un sanguinoso confronto col Comando Vermelho che ha causato 57 vittime.

Un 'Paccto' contro le mafie

In quegli stessi giorni, Fabiano Bordignon si trovava qui in Italia. È il direttore del Sistema penitenziario del Brasile, nel quale si trovano oltre 700mila detenuti. E insieme a una delegazione di colleghi di altri Paesi latinos, era venuto in visita di 'studio' presso il Dipartimento italiano dell’amministrazione penitenziaria. Lo scambio d’informazioni è previsto da El Paccto, un programma quinquennale di assistenza tecnica contro il crimine transnazionale, che vede la collaborazione di Unione Europea e America Latina. È nato nel 2018 e la sua parte europea è stata affidata a un consorzio di a- genzie di Italia (Iila), Francia (Expertise France), Spagna (Fiiapp) e Portogallo (Instituto Camoes). Il programma è nato con l’obiettivo di contrastare il crimine organizzato in 18 Paesi dell’America Latina, dal Messico fino a quelli del Cono Sur. Un accordo rispetto al quale l’Italia gioca un ruolo cruciale nel settore penitenziario, nel quale ha un know how da esportare: «Vogliamo conoscere a fondo il funzionamento del sistema chiamato '41 bis' e degli strumenti a esso collegati», dice ad AvvenireBordignon, interessato anche alle «esperienze di gestione dei detenuti», al funzionamento della Polizia penitenziaria italiana e agli «strumenti per bloccare l’uso dei telefoni cellulari», prediletti dai narcopadrini per comunicare con l’esterno. Ad accogliere la delegazione di esperti stranieri è stato il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Mentre Giovanni Tartaglia Polcini, magistrato italiano in servizio presso la direzione generale per la mondializzazione della Farnesina, ha fatto loro da mentore: «Una delle principali criticità latino americane riguarda il sistema penitenziario – conferma –. L’abdicazione, de facto, del controllo istituzionale all’interno delle carceri, in larghe parti dell’emisfero, ha reso quelle strutture potenzialmente in grado di favorire lo sviluppo della criminalità organizzata. Inoltre, in molte di quelle strutture c’è un forte sovraffollamento e ciò aumenta le difficoltà per le autorità». A differenza di quanto avviene in casa nostra dal 1986 (anno in cui venne introdotto, con la legge Gozzini, l’articolo '41 bis' per i detenuti mafiosi), negli ordinamenti penitenziari di quei Paesi non è prevista una netta separazione tra criminalità comune e organizzata in ambiente carcerario. E purtroppo, continua il magistrato italiano (che coordina il settore sistemi penitenziari di El Paccto), così si rischia che quelle carceri diventino «luogo di proselitismo, reclutamento, radicalizzazione e addestramento di nuove leve». Fino a diventare delle università del crimine, tanto che «in alcuni istituti, i padiglioni prendono il nome dei gruppi d’appartenenza dei detenuti più pericolosi».

Uno è, appunto, il Primeiro Comando da Capital , potentissimo narcocartello brasiliano che, secondo Tartaglia Polcini, «costituisce un esempio paradigma- tico» proprio per i suoi meccanismi di nascita e affiliazione dietro le sbarre, che ricordano «la nuova camorra organizzata e la vicenda criminale di Raffaele Cutolo». Istituire un '41 bis' nelle carceri di Paesi latinoamericani di riflesso porterebbe vantaggi nella lotta alle mafie italiane, permettendo di limitare la possibilità che alcuni broker nostrani della cocaina, reclusi in quei Paesi, approfittino delle 'maglie larghe' per dirigere i traffici da quelle latitudini, come è già accaduto. O che riescano a evadere, come avvenuto appunto col boss calabrese Morabito.

A lezione di '41 bis'

Grazie alla cooperazione di Raffaella Pezzuto, capo dell’ufficio di coordinamento delle attività internazionali del ministero di Giustizia, a maggio in Italia sono venuti – oltre al brasiliano Bordignon – i responsabili delle amministrazioni penitenziarie di Spagna, Portogallo, Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. «Stiamo dedicando particolare attenzione alla supervisione e al trattamento dei criminali collegati al narcotraffico e ai gruppi mafiosi – argomenta Julio Javier Ríos, ministro della Giustizia del Paraguay –. C’è la ferma intenzione di creare unità detentive con regime di massima sicurezza per gli appartenenti a gruppi criminali», fra cui i soliti «brasiliani del Primero Comando Capital e del Comando Vermelho, fra gli altri ». La missione in Italia, ribadisce Ríos, «è servita a fornirci conoscenze empiriche e scientifiche sul sistema italiano» insieme alle norme en materia de seguridad vigilada nei confronti di alcuni boss. In Italia, all’inizio del 2019, in regime di 41 bis erano detenute 748 persone, più altre 5 in «case di lavoro» ma sottoposte allo stesso trattamento. La delegazione sudamericana ha visitato il carcere dell’Aquila, dove sono custoditi in regime speciale 153 uomini e 10 donne, in molti casi boss di mafia o condannati per reati efferati. «Qualsiasi tipo di intervento – ragiona Tartaglia Polcini – necessita anzitutto di un’attenta analisi ». Visitando di persona una sezione di massima sicurezza italiana, gli inviati sudamericani hanno potuto rendersi conto de visu del suo funzionamento. Inoltre, hanno potuto confrontarsi su alcuni aspetti con esperti come il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho e il capo del Dap Francesco Basentini, ma anche col Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma sulla questione del necessario rispetto dei diritti umani, anche quando si tratta di narcopadrini o criminali incalliti.

Dopo la missione in Italia, a dimostrazione di come la strada avviata non sia intessuta solo di affermazioni retoriche, è stato raggiunto un ulteriore risultato. I ministri del Mercosur hanno firmato a Buenos Aires una dichiarazione che, partendo da El Paccto, ha dato vita a una «piattaforma di lavoro congiunto» chiamata «Redcopen» e pensata appositamente per contrastare «l’infiltrazione del crimine organizzato transnazionale» nelle carceri. Un’iniziativa senza precedenti in America latina. E grazie alla quale in futuro, si spera, evasioni sconcertanti come quella del boss Morabito saranno più difficili da compiere.

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