venerdì 3 maggio 2013
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«La lotta alla disoccupazione, quel­la giovanile soprattutto è la stella polare dell’azione, della vita del nostro governo e sarà la nostra ossessione, gior­no per giorno. E vorrei che il vertice eu­ropeo di fine giugno fosse dedicato a que­sto tema». Sono parole del neopresiden­te del Consiglio Enrico Letta a conclusio­ne del suo breve tour nelle capitali euro­pee (a Berlino, al cospetto della Bunde­skanzlerin Angela Merkel, a Parigi all’Eli­seo ospite di François Hollande e infine a Bruxelles a colloquio con Van Rompuy e con il presidente Barroso): parole che non difettano di chiarezza e che insieme testimoniano di un esordio internazio­nale del tutto privo di complessi di infe­riorità. Di fronte a un’Europa – Berlino e Parigi, in primis – che temeva un’Italia incline a reclamare sconti, proroghe, dilazioni, Let­ta ha confermato la volontà italiana di ri­manere «all’interno dei confini degli im­pegni presi dall’Italia nell’ambito del Pat­to di stabilità». Confini stretti, che pos­sono anche stritolare ogni accenno di ri­presa, a cominciare da quel rapporto de­ficit/ Pil che si fatica a comprimere al di sotto della soglia fatidica del 3% e che ci impedisce per ora di uscire emendati e assolti dalle maglie della procedure per deficit eccessivo nelle quali siamo impi­gliati dal 2009. L’Europa – che in propo­sito dovrebbe pronunciarsi a fine mese – esige «misure credibili» per concedere fi­ducia, il che per l’Italia implica una ge­stione sorvegliata dei conti pubblici e u­na politica economica non troppo indul­gente sulle regole di bilancio. Ma come conciliare gli impegni europei con le emergenze economiche naziona­li? Tradotto in cifre, i tecnici stimano che la sospensione dell’Imu, la rinuncia al­l’aumento dell’Iva, la copertura della cas­sa integrazione, le misure per lo sviluppo e i provvedimenti contro la disoccupa­zione inciderebbero come minimo per 7 miliardi di euro, ma la cifra più verosimi­le si spinge oltre i 10-11 miliardi. Miliar­di di minore spesa o di maggior entrata. E qui sta il grande rebus irrisolto del no­stro Paese (e non soltanto del nostro): ri­gore e crescita, dioscuri apparentemen­te inconciliabili, poiché come si è visto la pressione dell’uno immobilizza e stran­gola l’altro nonostante il monito severo che periodicamente giunge dalla sponda americana dell’Atlantico (in testa a tutti il premio Nobel Paul Krugman, che sul New York Times ha clamorosamente sma­scherato il teorema di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff – fino a poco tempo fa indiscussi soloni di Harvard. Risultato: i tagli alla spesa, rivela Krugman, non al­leviano affatto la crisi ma producono al­tra crisi insieme al decadimento dello Sta­to sociale). Messaggio che in qualche mi­sura anche l’Europa sta recependo, se pensiamo che pochi giorni fa lo stesso commissario agli Affari economici e mo­netari Olli Rehn ammetteva la possibilità per i Paesi membri più virtuosi di allen­tare la morsa del rigore per poter così av­viare le riforme per la crescita. Inutile dire che subito si è levata la voce imperiosa del ministro delle finanze te­desco Wolfgang Schaeuble, vigorosa­mente contrario a ogni cedimento sulle politiche di rigore. Messaggio implicita­mente diretto anche al governo italiano, perché non si faccia troppe illusioni: Ber­lino, fa sapere l’arcigno custode della pu­rezza contabile tedesca, non fa sconti. Ag­giunge Merkel: «Il consolidamento di bi­lancio e la crescita sono due facce della stessa medaglia». Ma si tratta di un ben oleato gioco di squadra. Alla cancelliera preme soprattutto arrivare alle elezioni di settembre con l’allure e il profilo di u­na lady di ferro. Per scongelarsi in un sor­riso c’è sempre tempo. «L’Italia vede già la luce alla fine del tun­nel della crisi economica», riconosce il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurría, nonostante per il nostro Paese si prefiguri un Pil al ribasso dell’1,5%. «Tor­no più ottimista di quando sono partito», gli ha fatto eco Letta al ritorno da Bruxel­les. E guai a non esserlo.
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