domenica 16 dicembre 2012
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«Che dobbiamo fare?», dice la folla. La domanda è rivolta a Giovanni il Battista, e siamo all’inizio di tutto. Giovanni percorre l’intera regione del Giordano, restituendo vita a un’antica parola di Dio: «Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri». La parola viene dal libro di Isaia. La vita ce la mette Giovanni: «Razza di vipere, chi vi ha inegnato a sfuggire all’ira imminente? Fate dunque opere di conversione». (E non mi venite a dire che siete figli di Abramo e avete già dato. Incominciate da voi stessi). Quanto alla domanda, che in molti gli rivolgono, la risposta di Giovanni è molto concreta: chi ha il doppio di tutto, può campare benissimo anche con la metà; e chi ha potere sugli altri si accontenti del giusto, senza estorcere niente a nessuno. In altre parole, non siate ingordi di beni, non abusate del potere. Per il resto, Colui che deve venire, aprirà il vostro cuore con Spirito santo e fuoco: e saprete davvero chi siete e che cosa valete. Non è poi così enigmatico e fumoso, questo ammonimento, vero? Volessimo riassumerlo, per la nostra condizione odierna, potremmo dire così. La prima mossa, per sgomberare il terreno al Signore che viene, è questa: mettere risolutamente fuori gioco l’avidità. Deve essere un soprassalto collettivo, una conversione della mente, uno scatto di orgoglio. Domandiamoci tutti insieme: che razza di stile di vita è mai il nostro? Figli di Abramo, figli di Kant, figli di Mazzini o di chi volete voi: ma adesso, che cosa siamo diventati? Non meno di un moto collettivo di pura dignità ci è necessario, ormai. Ci siamo troppo intorpiditi, sottovalutando il pericolo. Fino all’istupidimento. L’avidità è un virus che lavora sottotraccia, ramifica nel sangue e nel cuore: sperpera beni che possono benissimo essere condivisi, genera conflitto e abuso di potere, diffonde arroganza e insegna a trattare male tutti. Non te ne accorgi, e a un certo momento cresce l’assuefazione a ringhiarsi addosso, a sbeffeggiare gli onesti, a diffidare tutti, a essere indifferenti a tutti. Ecco, a quel punto, l’avidità ha fatto il suo lavoro di erosione: si incrinano i pilastri, cedono i ponti. L’assuefazione all’avidità (anche in chi non ci guadagna niente) ha abbassato la soglia di allerta, ha liberalizzato la soglia della decenza, ha imparato a giustificarsi come un diritto. Infine, si insedia come uno scopo. Nella scena evangelica seguente, arriva la rivelazione che ci è necessaria. Subito dopo il battesimo di Giovanni, Gesù entra nella sinagoga di Nazaret, riceve il rotolo del profeta Isaia – sempre lui – e trova un altro passo. «Lo Spirito del Signore è su di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio». I segni? Sono segni di guarigione dal male, di liberazione dalla schiavitù, di restituzione della speranza. Sono i segni dello Spirito al lavoro. E del fuoco che riscalda l’umana convivenza, ridestando speranza per il suo riscatto, capace di un calore che Dio soltanto può infondere. È la pars construens, il lato costruttivo che ci mancava. Il vangelo di Gesù rilancia, non si accontenta del pareggio. Colmati i fossati, spianati gli ostacoli, deve rientrare in circolazione la passione di non lasciare indietro nessuno, l’entusiasmo di riaggregare i dispersi e gli smarriti, la gioia di dividere le cose buone, i pensieri migliori, i fondamentali dell’umano, i legami che ci sostengono l’anima. L’effetto implacabile dell’avidità, infatti, è l’indifferenza. Può sembrare, all’inizio, che l’avidità accenda il desiderio. Lo ammazza invece. L’avidità trasforma la città in un formicaio impazzito. L’indifferenza desertifica l’anima. Come già l’avidità, anche l’indifferenza, ora, sta cercando di accreditarsi ai piani nobili (si fa per dire) della coscienza collettiva. L’indifferenza ha il ciglio asciutto e razionale, non si aspetta più niente da Dio (e neppure dagli uomini). È agnostica, nella sua versione elegante, anche verso la moralità condivisa. Istruisce l’individuo emancipato a pensare semplicemente a se stesso, come fosse una superiore forma di modestia intellettuale (lo è, in effetti, ma in un altro senso). L’indifferente non pretende di essere sostegno per nessuno, e coltiva l’ambizione di essersi fatto esclusivamente da sé (a parole). Questa perfetta indifferenza a Dio e al prossimo non è autonomia. L’indifferentismo è parassitismo. Non c’è che Dio, in Spirito e fuoco, che possa illuminarci e riscaldarci al riguardo. Il Signore viene, e ce lo spiega: con parole e segni inequivocabili. Se questa volta lo lasciamo arrivare fino al cuore, ci sentiremo come liberati da un brutto sogno. Impareremo anche a commuoverci e a sorriderci, dalla voglia che avremo di ricominciare insieme.
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